Voglio una cornice! Una vita per le immagini, al di là dei social

Un’attività per liberare foto e immagini che custodiamo nei nostri dispositivi o che abbiamo affidato ai social network. Per farle respirare, dargli voce, renderle spazio di incontro.

inizio a pubblicare qualche frammento dal manuale di pedagogia hacker, che piano piano prende forma, su cui da tanto ragioniamo con i soci di C.I.R.C.E.
Se ti interessa solo l’attività da fare con i ragazzi scrolla giù fino a che  trovi “L’ATTIVITA'”

Con Carlo (“Karlessi” Milani) eravamo alla Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano – corso Teoria delle arti multimediali – il compito era stimolare negli studenti uno sguardo critico sulle tecnologie digitali, partendo anche dal presupposto che ne avrebbero fatto largo uso nel loro percorso professionale.

Ad un certo punto avevamo chiesto, approfittando delle loro competenze, di produrre dei disegni o semplici prodotti digitali per restituirci le loro risonanze agli stimoli che fino a lì avevamo portato.

Tra i tanti lavori interessanti uno studente ci invia un’immagine che – ci spiegherà poi in fase di restituzione – rappresenta il potere della fotografia, sua passione, di aprire sguardi nuovi.

Marco, così si chiamava, sottolinea il valore di quest’arte per indagare il mondo e guardarlo con altri occhi. Al termine della sua riflessione aggiunge però una nota critica che ci colpisce molto: sottolinea la frustrazione nell’utilizzo dei social network per presentare al mondo le proprie opere.
Ci racconta con dovizia di particolari che dietro ad ogni foto che pubblica c’è un lungo lavoro: la ricerca del soggetto, la prospettiva, la luce…, spiega che magari prova 100 volte la stessa posa prima di trovare la forza comunicativa che cerca. Il problema è che però, quando arriva a caricare le sue opere migliori su instagram, o flickr, è consapevole che l’attenzione che il pubblico dedicherà ad ognuno di questi lavori sarà di pochi secondi (o meno…) dopodiché ricomincerà lo scroll frenetico, e mille altre immagini ne cancelleranno la memoria.

“Che la mia foto riceva o no un like non cambia, anche il like si consuma in un centesimo di secondo, il problema è che se non ci si ferma di fronte all’immagine, se ne perde tutto il valore!” ci dice.

Quando una fotografia parla per davvero

Sentivo che sarebbe stato interessante e prezioso approfondire ulteriormente la questione.
Mi aveva colpito il modo in cui Marco parlava delle suo fotografie, c’era fierezza e affetto, sembrava che parlasse di creature animate; mi ha solleticato così l’idea di provare a dare voce davvero a una di queste immagini. Cosa ci avrebbero raccontato?

Vuoi fare un esperimento?

Propongo allo studente di sottoporsi ad un esperimento, se gli andava di impersonificare come un attore una delle sue foto per esplorare ulteriormente gli stimoli interessanti che ci aveva portato. Si tratta della tecnica psicodrammatica dell’ “inversione di ruolo“, in vero rischiata un pò così, incautamente, a freddo: non conoscevo le persona che avevo davanti, non sapevo se sarebbe stato la gioco, se fosse stato nella condizione adatta per immedesimarsi e lasciarsi andare alla spontaneità e creatività.
Dai quei pochi elementi che possedevo, con un pò di fiuto e di azzardo, intuivo che avrebbe potuto funzionare; e ad ogni modo in caso non avesse funzionato sarei stato subito pronto a fare un passo indietro.

Ascoltare una foto che parla

Con molto coraggio, curioso e un pò perplesso, Marco viene alla cattedra, di fronte ad un’aula molto affollata.
Gli chiedo di fare tre giri su se stesso (la cosa per lui si fa ancora più imbarazzante, ma sta al gioco…) sapendo che quando si fermerà si sarà trasformato nella sua foto, così che io potrò iniziare a intervistarlo.
Di seguito i passaggi più significativi di questo strano incontro:

-Buongiorno foto. Piacere di incontrarti. Anzitutto puoi raccontarci cosa raffiguri?

Sono la foto di una falesia, la parete di una montagna, con una luce molto particolare, guarda come sono rosa.. da un’idea di serenità e di mistero..-

– Come è stato il momento in cui sei nata, lo ricordi?


– Si, lungo, quasi estenuante, però Marco si è preso molta cura di me; lui è un perfezionista sai… guarda come sono venuta bene, devo proprio ringraziarlo!


– Senti foto, io però so che c’è qualcosa che non ti lascia serena, me lo diceva

Marco prima. vuoi parlarcene un pò?

– Certo… Io arrivo al mondo attraverso i social network. Questo mi permette di arrivare a tante persone, mica come le foto di un tempo che rimanevano chiuse negli album, che le vedevano poche persone e poi le dimenticavano. A volte ho anche tantissimi like sai?

Il problema è che tutti si approcciano a me con superficialità – un’occhiata e via – distratti da tanti altri stimoli che ci sono nel mondo digitale, e io mi sento persa in mezzo a mille contenuti buttati li tanto per dire “esisto”.

– Ma quindi cosa vorresti?


– Ti confesso che sono molto gelosa delle foto nelle mostre, dei quadri nei musei, dove le persone si fermano, gli dedicano del tempo, le commentano, ci riflettono. Beate loro, io invece costretta in questo frullatore…


Senti vuoi riassumere tutto quello che mi hai detto in un messaggio da mandare al mondo?


– Si (Marco-foto ci pensa un pò)
…voglio una cornice!!!

Questo incontro ha ispirato un’attività che abbiamo chiamato proprio “voglio una cornice!“, che è stata poi proposta tante volte nei percorsi educativi con pre-adolescenti o adolescenti, ma che sicuramente, nella situazione giusta, potrebbe funzionare anche in un contesto più adulto.

L’ATTIVITA’

“Fermare” le immagini

L’attivazione è molto semplice.
Chiediamo ai ragazzi di cercare sul proprio telefono una foto, o in generale un’immagine che loro hanno prodotto, che magari è già stata condivisa sui social network (ma anche no), che ritengono meriti attenzione perché per loro particolarmente significativa, che dice qualcosa di importante di loro, o del loro sguardo sul mondo; un’immagine che, appunto, meriti “una cornice”.
Non devono per forza essere opere d’arte (o sedicenti tali) come nel caso raccontato prima, vale qualsiasi foto o immagine che abbia un significato per chi la conserva nel proprio telefono, e che rischia di perdersi nel mondo sovraccarico del digitale.

Spegnere le luci, uscire dal dispositivo

Per prepararsi ad un lavoro del genere è utile un momento di riscaldamento che possa aiutare i partecipanti ad entrare in contatto e creare un clima di complicità e intimità.
Uno degli elementi di base di questo lavoro è la creazione di un ambiente raccolto per condividere insieme le immagini, e questo può essere aiutato anche da elementi scenografici: per noi all’ Anno Unico è importante abbassare le luci, non solo per vedere meglio l’immagine proiettata, ma anche perché la penombra ci avvolge, unisce e protegge.

A questo punto proiettiamo le immagini una alla volta e prendendoci per ognuna tutto il tempo che merita. Le foto vengono così liberate dalla gabbia del dispositivo, scompare il rumore di fondo di altri mille contenuti, scompaiono i likes, è sabotata la possibilità di scrollare con il gesto automatico che siamo soliti fare, e si aprono spazi di connessione (con se stessi, con gli altri) imprevisti.

C’è qualcosa in questa attività che ricorda la “serata diapositive” frequenti prima dell’avvento del digitale. Le foto erano mostrate solo ad una cerchia stretta, si raccontava, ci si fermava su quelle che avevano un’importanza particolare. Il problema in quei casi era la prolissità, e il fatto che il proiettante era il centro della serata mentre gli altri poco più che spettatori (e ad un certo punto scattava anche qualche sbadiglio…). Con questa proposta si recupera il lato di intensità di quell’esperienza, con il valore aggiunto della circolarità e simmetria delle diverse voci, dello scambio come fondamento del lavoro.

Ad ognuno il suo spazio

La dinamica del lavoro è semplice: ogni ragazzo a turno presenta la propria foto, può raccontare quando l’ha fatta, quali sono i particolari che dovremmo notare, perché la ritiene significativa. Gli altri possono solo fare domande (alla base dell’ascolto attivo…); non si più commentare, non si può giudicare.

Volendo si possono anche utilizzare tecniche di conduzione più raffinate per approfondire l’analisi riflessiva (inversioni di ruolo, fumetti, riproduzione “live” della foto), ma nella maggior parte dei casi io preferisco lasciare il tutto “leggero”, confidenziale. Aggiungendo al limite la richiesta di un titolo per l’immagine al termine di ogni presentazione.

…DAL DIARIO DI UNA SESSIONE

Le immagini che i ragazzi in genere portano sono molto differenti. Di seguito racconto ciò che è emerso durante una sessione con i ragazzi dell’ Anno Unico, un paio di anni fa.
Si tratta di un gruppo, per quanto eterogeneo, che aveva in quel momento già fatto un importante percorso di condivisione e lavoro insieme, in cui c’era già un buon livello di fiducia reciproca e capacità di ascolto.

Anzitutto, la famiglia

Alcuni partecipanti al gruppo hanno scelto di portare foto di propri famigliari (ma mai genitori o fratelli..), appartenenti alla cerchia allargata che sono stati rifugio e riferimento in momenti difficili.

Pablo ha portato un montaggio di foto di alcuni parenti in Perù, fatta con photocollage, un’applicazione per smartphone: ci sono i suoi zii e i suoi cugini sorridenti. Ci racconta che a loro è molto legato, purtroppo li vede poco perché vivono lontani, però sono come fratelli per lui, e non vede l’ora di ri-incontrarli.
I compagni chiedono alcune informazioni per saperne di più, incuriositi da alcune pose o elementi nella foto.

Alex porta una foto che ritrae i suoi giovani zii: “mi capiscono più dei miei genitori, per fortuna che ci sono loro, senza di loro non so dove sarei ora…” ci dice..

L’istantanea di Laura invece ritrae lei con la sua anziana nonna; “l’ultima foto fatta insieme prima di morire” ci confida “la nonna ha significato molto per me“, poi rimane in silenzio, commossa. La Laura ne ha passate tante, tra comunità e ricoveri in ospedale, e a noi in quel momento ha voluto portare un pezzo importante di sé; se lo ha fatto è perché ha ritenuto che potesse fidarsi.
Il valore di un lavoro come questo è che ognuno sceglie come starci, a quale livello di intimità esporsi. I compagni la guardano con sguardi pieni di vicinanza, è un silenzioso abbraccio di tutto il gruppo; Lorena, la sua amica, la abbraccia davvero.

La mia arte per raccontare di me

Felipe invece ci presento uno screenshot tratto dal suo profilo instagram. E’ una sua produzione artistica, realizzata con un’app per ipad. Lui è un appassionato di disegno (già un suo lavoro era stato pubblicato in un articolo, qui). Si tratta di un proprio “autoritratto digitale”, realizzato con cura, in cui il volto è diviso a metà; una metà è più serena, l’occhio è chiuso, mentre l’altra dà idea di “essere sull’attenti”: l’occhio è aperto e il volto meno rilassato. Ci racconta che in quel lavoro possiamo capire chi è veramente, e per questo ne è molto soddisfatto. Rappresenta il suo lato sognatore, quanto sia importante per lui fantasticare, la serenità dei momentitranquilli e creativi. E insieme c’è il Felipe che deve essere sempre sull’attenti in un mondo difficile, fatto di soddisfazioni ma anche minacce e sofferenze.

Samuele e Antonio non condividono invece immagini particolarmente intime o personali, ma non si sottraggono a condividere qualcosa di sé, che si rivelerà comunque molto importante
Samuele ci mostra la foto che ha fatto ad un graffito. Ci dice che rappresenta il livello tecnico a cui aspira: ci fa notare come le lettere sono state decostruite, come si intrecciano, come tutto ciò trasmetta un senso di movimento, di vita; la “il nome si è trasformato in un essere biologico e meccanico insieme” ci dice. Ci fa notare la precisione del tratto, spiegandoci quando è difficile realizzare un’opera del genere con gli spray.

La bellezza del codice

Antonio, molto riservato, all’inizio aveva dichiarato che non avrebbe partecipato. Quando però gli ho ricordato che non era necessario portare una foto, e al limite nemmeno un’immagine originale, inizia a trafficare con il suo telefono, gira un pò nel web e poi mi invia il suo contributo. Si tratta del codice di un software in caratteri verdi, a “cristalli liquidi” come nei monitor di un tempo, su fondo nero. “La bellezza del codice” è il titolo che gli dà. “Nessuno capisce quello che vuol dire…”, ci dice con sguardo beffardo. Aveva trovato, con il suo stile, provocatorio e protetto, un modo per contribuire al momento di condivisione; sembrava che anche la sua immagine ci stesse dicendo “per capirmi c’è bisogno di tempo, non sono così immediato”.
Mi ha fatto tornare in mente quando il nostro amico Baku, uno dei più potenti coder italiani, durante una delle reading che organizzavamo tempo fa in una baita in montagna, aveva letto il Kernel di Linux, con un’espressività tale che anche a me, che non so nulla di programmazione, era sembrato di capirne i contenuti, e in cui si palesava tutta l’intensità della sua relazione con quello strano linguaggio.

Fanculo al sole!

Per ultima tocca ad Lara. Porta una foto scatta da lei, e postata recentemente su Instagram. Ritrae il suo dito medio alzato e sullo sfondo un tramonto. Poteva sembrare anche questa una provocazione (e ci sarebbe anche stata…) ma scopriremo presto che non lo era per niente. Lara ha un fare molto serio, e inizia a raccontare: “anzitutto sono molto fiera perchè questa foto mi è venuta molto bene” “rappresenta quello voglio dire…“. Ci racconta che la foto è stata scattata al tramonto, il momento per lei più bello della giornata, perchè ne segna la fine, si abbassano le ansie e può godersi un pò di tranquillità. Al contrario la mattina rappresenta per lei la fase più ansiogena: non sa cosa potrà accaderle quali problemi dovrà affrontare. La foto immortala la luce che scompare, il giorno che si congeda al quale lei da il proprio personale saluto. Il titolo, piuttosto didascalico ma efficace, è “fanculo al sole“.

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E’ tempo di pedagogia nerd!

Educatori e insegnanti gamers, geeks, otaku, viaggiatori dell’immaginario, sognatori introversi unitevi! Le vostre competenze sono preziose, oggi più che mai

La cosiddetta cultura nerd fa riferimento ad una realtà complessa e talvolta controversa, che spesso si associa ai ragazzi meno “cool”: a volte introversi, facile bersaglio dei “fighi della scuola”, avete presente i ragazzini protagonisti di Stranger Things?
In questo articolo spiegherò perchè sono convinto che, nella società dell’utilitarismo, del rumore e dell’apparire, questo universo possa portare un contributo da non sottovalutare nei nostri ambiti di lavoro, se approcciato da un prospettiva di educazione critica. Un valore ancora più importante oggi, quando questi mondi sono uno dei pochi ambiti di “resistenza” e crescita per adolescenti in condizione di ritiro sociale.

Non è una novità

Una pedagogia nerd in realtà esiste già da molto tempo, anche se forse non si è mai utilizzato un nome per riunirne riflessioni e pratiche. E’ promossa da lungimiranti educatori, insegnanti, animatori sociali (magari anche tu che leggi) che sanno cogliere il valore di crescita e di mediazione con il mondo di fumetti, serie tv, ambienti fantastici, o che nei propri contesti animativi e di cura propongono giochi di ruolo, scrittura immaginativa che apre sguardi nuovi, attività basate su originali approcci ai videogame e al mondo digitale.
Dare un nome a tutto ciò non è detto che sia così importante, contribuire valore e contribuire al suo sviluppo sicuramente si. Il “Manifesto della pedagogia nerd” che segue è allora solo un gioco, il tentativo di rilanciare questa ricchezza e aprire spazi di confronto.

MANIFESTO DELLA PEDAGOGIA NERD

1- Valorizzare la produzione culturale degli universi nerd

E’ necessario valorizzare in un’ottica pedagogica la produzione culturale e alle pratiche legate ai cosiddetti universi “nerd”: romanzi fantastici (speculative fiction, fantascienza, weird…), fan fiction, anime, manga, supereroi, giochi di ruolo, videogames, quali risorse di riflessione su sé stessi e sul mondo, strumenti di apprendimento e di crescita. Sollecitare e supportare la conoscenza base di questi fenomeni culturali da parte di insegnanti, educatori e genitori, per aprire piani di comunicazione con i bambini e gli adolescenti che ne sono appassionati, e in generale arricchirsi di una risorsa preziosa per comprendere la contemporaneità.


2- Riscoprire che il gioco e l’immaginazione sono risorse fondamentali di apprendimento non solo per i bambini

E’ necessario valorizzare la pratica del gioco tra cui quello da tavolo, di ruolo, di cosplaying, di immaginazione; riscattarlo dalla convinzione comune che sia solo patrimonio dell’infanzia (mentre quasi solo lo sport sia riconosciuto come attività ludica degna di essere praticata da giovani e adulti).

3- Valorizzare gli educatori, gli insegnanti, i formatori nerd

Con il passare degli anni incontriamo sempre più educatori e formatori che in modi diversi si possono iscrivere al grande universo “nerd”. E’ fondamentale valorizzare le loro competenze in tal senso, conferire loro dignità e sostenerli nello sviluppare pratiche generative nel lavoro educativo e formativo. E’ importante inoltre valorizzare la figura di educatori riservati, introversi, in opposizione al mito, in particolare in ambito maschile, dell’ “animatore-maschio-alfa”.

4- Sviluppare la progettazione e sperimentazione di attività didattiche ispirate o focalizzate all’immaginario nerd.

E’ necessario progettare e portare in contesti di apprendimento formali e non-formali attività ispirate ai mondi fantastici, al gioco di ruolo, a tutto ciò che del vasto contesto culturale nerd può essere utile per creare attivazioni generative, senza snaturarne il valore originale.

5- L’attitudine nerd: essere introversi, riflessivi, non è un difetto ma un valore.

E’ necessario valorizzare l’attitudine, il modo di apprendere e di relazionarsi con il mondo delle persone meno estroverse; individui che possiedono spesso mondi interiori, capacità riflessive e doti immaginative particolarmente sviluppati. Dobbiamo portare alla luce la realtà che essere timidi non è un difetto, che ci sono modalità di socializzazione differenti rispetto a quelle rumorose delle feste, degli aperitivi, del ballo; che il silenzio è un valore, che la solitudine, se vissuta serenamente, non è per forza un problema (n.b.: non vogliamo qui avvallare l’equazione nerd=introverso, ma sottolineare quanto l’universo nerd rivaluti questa condizione).

6- Riscoprire il valore dell’inutile in contrasto alla società della prestazione

E’ fondamentale riscoprire l’importanza pedagogica, sociale e politica di ritagliare spazi nella propri vita dedicati ad attività che non hanno un fine utilitaristico, alla perdita di tempo. Si tratta di esperienze contro-culturali fondamentali a contrastare l’attuale società della prestazione e dell’utilitarismo.

7 Creare spazi generativi in cui sia valorizzato il potenziale contro-culturale dell’universo nerd, ridimensionandone la parte consumistica

L’universo nerd è (come, ahimè, gran parte delle sottoculture) colonizzata dal mercato (dalle grandi produzioni hollywoodiane ad ogni tipo di gadget legati a produzioni audiovisive, fumetti, libri). La Pedagogia Nerd mira a contrastare il predominio della sfera commerciale tornando invece a valorizzare le potenzialità del gioco e degli universi immaginari come strumenti di “visione” e di cambiamento sociale da sempre insiti in tali pratiche. La strada è quella di privilegiare la dimensione di autoproduzione e autorganizzazione (DIY) e di fiction speculativa (immaginazione, fantasy e fantascienza come strumento di riflessione critica sul mondo).

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Billie Eilish in aula: lavorare con la metafora

Riflettere su se stessi e sul mondo a partire da un video musicale fortemente metaforico

L’idea in pillole:
Si chiede ai ragazzi di dare un’interpretazione personale ad elementi metaforici presenti in un videoclip musicale. In questo modo possono essere condivisi e rielaborati sguardi su se stessi e sul mondo.

Alcuni video musicali hanno una forte carica metaforica. Il formatore può sfruttare questa caratteristica per attivare processi riflessivi, chiedendo al gruppo di ipotizzare possibili interpretazioni del “significato nascosto”.
Il video può essere suggerito dai ragazzi (in una situazione di lavoro simile a questa) oppure scelto a priori dal conduttore come nel caso che segue, perchè ritenuto funzionale per approfondire temi rilevanti per il percorso educativo.

Gli adolescenti, talvolta, ascoltano (e producono) musica di qualità

Ho proposto ai ragazzi dell’Anno Unico di lavorare sul video “When the party is over” della giovanissima cantante americana Billie Eilish (di grande successo a livello globale tra gli adolescenti). Il suo Electro-pop o Gothic-pop è stato apprezzato anche dalla critica più esigente; inoltre i suoi video sono spesso piccole opere d’arte, realizzati con cura e sempre veicolo di interrogativi e significati non scontati (…e sempre parecchio inquietanti).

Scegliere su quali elementi della metafora andare a lavorare

Quando si vuole utilizzare in contesti di apprendimento un video di questo genere, il formatore può chiedere ai partecipanti di “svelare” il significato nascosto dietro ad ogni singolo elemento, a partire dalla propria sensibilità. Questo tipo di attivazione può facilitare la produzione di riflessioni inedite e generative

In questo caso ho chiesto ai ragazzi di annotarsi cosa rappresentavano secondo loro:

– la scena iniziale: i colori, la stanza, la protagonista
– il liquido nero nel bicchiere
– le lacrime della protagonista e il finale

La condivisione

Terminata la visione del video apriamo il momento di condivisione. Quasi nessuno aveva scritto nulla ma, dagli interventi che seguirono, mi resi conto che avevano raccolto la sfida.

Luca: macchie sul bianco della perfezione

Luca interviene per primo. Ci dice che secondo lui la scena iniziale rappresenta la purezza, ma anche la solitudine. Il liquido nero è il dolore che la protagonista manda giù nel tempo. Dopo un pò è satura, non ne può più e il mondo puro in cui viveva si sporca.
Dopo aver detto queste parole non ha voglia di commentare oltre, e io non gli chiedo altro.
Dentro di me però penso quanto in questa visione ci fossero temi importanti dell’esperienza di Luca, ma anche di tanti adolescenti di oggi. Ci troviamo sempre più spesso ad avere a che fare con ragazzi cresciuti con genitori impegnati ad essere perfetti nel loro ruolo, a non far mancare nulla ai loro pargoli: dialogo, esperienze formative di ogni sorta, protezione dalla sofferenza e dalla frustrazione. In queste situazioni è facile che i figli interiorizzino a loro volta l’imperativo di “dover essere perfetti” e, talvolta, la sensazione di esserlo. Arrivati all’adolescenza però lo shock è forte: i ragazzi si rendono conto che sono vulnerabili, che stare al passo con le aspettative dei genitori diventa impossibile, che il mondo là fuori è pieno di insidie, precarietà, che il successo che sognavano da bambini è cosa per pochi. Tutto questo genera ansia e vissuti depressivi.
Se si è abituati alla perfezione, a rappresentarsi come bianco candido, qualsiasi macchia è insopportabile, impossibile da reggere.

Matteo: lo sporco diventa esperienza

Matteo invece ritiene che le scene iniziali possano rappresentare la forza e la fragilità insieme: il bianco è la fragilità, mentre i capelli azzurri di Billie rappresentano la forza, la determinazione con cui la protagonista vuole imporre il suo essere unica. Il liquido che la ragazza beve sono invece gli ostacoli che deve affrontare, le fatiche della vita, i problemi. Il finale rappresenta i cedimenti della ragazza: non riesce più a reggere tutta quella fatica e lascia andare, subisce molte sconfitte. Matteo sottolinea però che la protagonista non crolla mai definitivamente, lo si può notare dal fatto che rimane seduta fino alla fine del video, capiamo così che è riuscita ad attraversare questi momenti, anzi è diventata più forte e soprattutto più saggia (lo si intende dai vestiti sporchi, vissuti).
Il contributo di Matteo sembra andare a dialogare in qualche modo quello di Luca. In questo caso la non purezza diventa un valore, e la sofferenza può essere accettata e attraversata. Lo sporco è simbolo di maturità e di cammino compiuto.

Boris: la difficoltà i diventare grandi

Boris interviene per ultimo e, con il suo solito fare da “saputo”, comunica al gruppo – e a me – che il tema del video non è l’adolescenza, ma il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Ci dice che il liquido nero rappresenta quando vai a vivere da solo, e devi mantenerti tu, quando l’ingresso nel mondo del lavoro porta a vivere “la stessa fatica e la stessa merda”, quando la vita va in loop. Si diventa allora più cinici e “ci si chiude all’amore”.
Boris ci racconta che quando cresci, e inizi ad avere un pò di indipendenza, “ti senti il boss”, “però poi inizi a fare cazzate, butti via i soldi, ti penti e impazzisci”. Dice che il liquido nero potrebbe essere anche lo stare male dovuto alla delusione di sè.
Non a caso Boris è proprio in un situazione di vita simile, nei prossimi mesi gli sarà richiesto di fare un importante salto di autonomia, dovrà, non per sua scelta, andare a vivere da solo, e i servizi sociali non potranno aiutarlo tanto come hanno fatto fino ad ora, dato il compimento della maggiore età.
Attraverso questo discorso, fatto con tono di chi si sente un pò più grande e un passo avanti nel percorso della vita, Boris ha portato al gruppo i propri fantasmi, le proprie paure, gli ha dato una forma e le ha condivise come forse mai prima in un contesto simile. La potenza della metafora, e la protezione data dalla richiesta di non parlare di se ma “della protagonista del video”, lo hanno messo in condizione per poter formulare e comunicare quella riflessione, in un atto di grande forza e coraggio.

il ruolo del gruppo

Come sempre il gruppo ha avuto un ruolo fondamentale: accoglie, contiene, in un gioco di risonanze aiuta ad integrare i contenuti più forti.

Fra teatro e fumetto. Un’attività espressiva per adolescenti che non amano esporsi

Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi, non a loro agio in attività di tipo teatrale.

Le idee in pillole:
1 – Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi e non a loro agio in attività di tipo teatrale.
2 – Proporre ai ragazzi di utilizzare i loro smartphone, con applicazioni semplici e intuitive, per creare narrazioni attraverso le quali esplorare il proprio mondo interiore
3 – Creare occasioni di espressione di sè in cui si garantisce al ragazzo la possibilità di proteggersi dall’esposizione diretta allo sguardo dell’altro, proponendo un’alternativa all’imperativo “mostrati!” della società attuale.

Riferimenti metodologici e ambiti di ispirazione:
Metodologicamente i principali riferimenti si possono ritrovare

– Nello storytelling digitale in una prospettiva di apprendimento esperienziale
– Nello psicodramma moreniano e in particolare il lavoro con la maschera di Mario Buchbinder
L’ideazione della proposta è sicuramente influenzata da pratiche quali il cosplaying, il gioco di ruolo e il LARP (Live action role-playing)


Mettersi in gioco per piccoli step

In genere quando si propone un’attività di tipo teatrale i ragazzi meno a loro agio con la corporeità, più introversi o magari con sintomi di fobia sociale, la risposta è (intuitivamente) un rifiuto. In un’ottica di “pedagogia nerd” una possibilità in questi casi può essere accompagnare a lavorare sugli obiettivi formativi che ci si è proposti (attivazione del corpo nello spazio, espressione del mondo interiore attraverso la fisicità, creazione di relazioni..), ma per piccoli step, dando loro la possibilità di rimanere protetti e mantenersi in un ambiente conosciuto e a loro congeniale (il mondo fantastico).
Quello che segue è un esempio di questo tipo di attività.

Se qualche collega è incuriosito e vuole provare a proporre qualcosa di simile non si scoraggi dall’utilizzo delle maschere (materiale non facile da avere a disposizione). Un lavoro simile si può fare anche realizzandole in cartone (come si vedrà in fondo al post) oppure utilizzando altri espedienti.

La scoperta delle maschere

I tavoli dell’aula dell’Anno Unico erano coperti di tante maschere diverse. Alcune orrorifiche, altre misteriose, altre curiose, altre ancora simpatiche e rasserenanti.
Ogni ragazzo era invitato a prenderne una che gli risuonasse. La consegna era “prendi la maschera che ti chiama.. fatti scegliere da lei..”.
Una volta scelta la proposta era di indossarla ed eventualmente completare il travestimento utilizzando stoffe e mantelli, e aggiungendo altri gadget come bacchette magiche, campanellini, armi in legno.. A loro disposizione c’era uno specchio, o in alternativa per guardarsi potevano utilizzare i loro cellulari in modalità “selfie”.

A questo punto la richiesta era di provare a immaginare chi fosse quella maschera, quale storia avesse, quale missione nel mondo, annotando appunti su un foglio. Ho utilizzato come stimolo una scheda personaggio simile a quella di un gioco di ruolo, o di un videogioco, sottolineando che non era obbligatorio compilarla tutta.

Inventare le storie a gruppi e realizzare i frame fotografici

I ragazzi erano poi invitati a guardarsi intorno, osservare gli altri e unirsi in piccoli gruppi facendo incontrare le maschere che secondo loro avevano “qualcosa da dirsi”.
Compito di ogni gruppo era inventare una storia i cui protagonisti fossero i personaggi nati dall’attivazione precedente.

La storia quindi doveva essere divisa in alcuni frames fotografici: i ragazzi mascherati dovevano mettersi in posa per rappresentare le diverse fasi della narrazione e fotografarsi utilizzando i loro cellulari.

Un editing digitale semplicissimo e dall’effetto immediato

A questo punto, utilizzando due app, Prisma e PicSay, i ragazzi avevano il compito di trasformare le foto in vignette. Prisma è un’applicazione per smarphone che permette di “fumettizzare” qualsiasi immagine. L’utilizzatore può scegliere tra opzioni di filtri diversi, alcune dalla resa grafica davvero efficace. PicSay invece permettere di aggiungere anche fumetti per dare voce ai personaggi (al momento in cui scrivo Prisma dovrebbe essere disponibile per Android e iOS mentre PicSay solo per Android, ma se ne trovano altre simili per iOS).
I ragazzi hanno così editato e realizzato il proprio fumetto, spesso stupendosi della bellezza delle immagini prodotte dall’intersezione tra la tecnologia e la loro sensibilità
I ragazzi che lo desideravano potevano utilizzare un’altra app, VideoShow, per creare uno slideshow di presentazione della storia, con la possibilità di aggiungere musica ed effetti sonori.

Momento riflessivo di condivisione

L’attività si è chiusa proiettando i lavori prodotti. In questa fase il mio compito di conduttore è stato quello di provare ad approfondire i contenuti, chiedendo ai ragazzi di dare un nome ai sentimenti dei personaggi, ai loro pensieri, ai motivi dei loro gesti. In un’ottica di mantenere la “copertura” non chiedo di uscire dalla metafora, di raccontare se gli autori ritrovano qualcosa di quanto raccontato nei loro vissuti personali, a meno che ciò non emerga spontaneamente. L’idea è quella di invitarli ad esplorare il proprio mondo interiore rimanendo ancora protetti dalla metafora.

Creare spazi protetti di convivialità ed espressività

Un’attività di questo genere comprende alcuni elementi tipici del teatro quali la narrazione, la relazione “incarnata” tra personaggi, il corpo come veicolo narrativo, può però essere utilizzata con adolescenti che non parteciperebbero mai ad una classica attività teatrale. In particolare ho scelto in diversi casi di proporla ragazzi che provenivano da una situazione di hikikomori (o ne erano a rischio), o che in generale vivevano disagio nell’esporsi all’altro. I 3 diversi livelli di protezione – la maschera, la mediazione della foto, la fumettizzazione – permettono loro di sentirsi sicuri e quindi facilitano il mettersi in gioco.
I ragazzi si muovono, esplorano gli spazi (le foto potevano essere fatte ovunque nell’edificio, e anche nel cortile), cooperano ad un obiettivo comune, interagiscono (e non è raro sentirli ridere insieme).

I ragazzi si espongono, comunicano rimanendo in uno stato di anonimato, ciò che importa non è il nome e il volto di chi manda il messaggio ma il messaggio stesso. Il prodotto artistico è un’opera collettiva che permette a chi l’ha creata di esprimere elementi importanti di sè, pur non svelando la propria identità.

Approcciare in modo attivo le tecnologie

Le applicazioni che sono state utilizzate contengono pubblicità, acquisti “in app” e le loro funzioni sono creativamente piuttosto limitanti: l’utilizzatore, può scegliere solo tra poche opzioni operative. Sono quindi agli antipodi rispetto al software libero, direzione imprescindibile in una prospettiva di Pedagogia Hacker.
Un’attività di questo permette però, a ragazzi che spesso vivono lo smartphone come oggetto di dipendenza, subendone passivamente la presenza, di cominciare ad invertire la rotta, scoprire che la tecnologia può essere utilizzata in modo attivo, creativo, può permettere loro di generare opere originali a partire dalla propria sensibilità e necessità comunicative.
Inoltre l’inversione di direzione è riscontrabile anche sul fronte dell’esposizione di sè. Mentre nei social network è fondamentale promuovere il proprio volto, la propria immagine, qui al contrario la regola è tenersi nascosti. Chi manda il messaggio è un’identità collettiva, un incontro tra persone che hanno lavorato ad un obiettivo comunicativo e artistico comune che trescende le singole individualità.

Le storie

Tra le storie realizzate da i ragazzi dell’Anno Unico c’è quella che racconta di Iris, un adolescente (con poteri magici) che per punizione è stato intrappolato in una foglia che non appassiva mai. Per questo rimase per anni attaccato ad un ramo, era “diventato un silenzioso osservatore del piccolo mondo che lo circondava e trascorreva le sue giornate pensando ad un modo per liberarsi”, era “centenario ma fisicamente appariva come al giorno in cui era stato intrappolato” (cit. dal testo dell’allievo). Iris cercava di chiedere aiuto ma, per colpa dell’incantesimo, era diventato afono, non emetteva alcun suono
Un giorno però Iris incontrò Peggy, un ragazzo molto solo, che aveva il dono di un udito finissimo. Peggy fu l’unico a riuscire a sentire le grida di aiuto di Iris, lo trovò, salì sull’albero e lo liberò. Dal quel momento naque una bellissima amicizia.

E’ facile uscire di metafora e riconoscere nel vissuto di Iris quello di tanti adolescenti che abbiamo incontrato. Ritengo inoltre che abbia una grande carica poetica, esaltata dalla realizzazione per immagini che pubblico di seguito:

Nella seconda storia che vorrei presentare i contenuti sono invece meno rassicuranti, come accade spesso quando i ragazzi sono liberi di inventare senza l’intromissione dell’adulto. Ad una prima lettura potrà sembrare una storiella banale, ma anche qui possiamo trovare temi che caratterizzano il vissuto degli adolescenti: la fiducia, il tradimento di una persona cara, la rabbia.

La catarsi

Un lavoro di questo genere può attivare un processo di catarsi: il ragazzo, mettendo in scena l’assassinio di colui che lo ha tradito, “scarica” le tensioni negative, prendendo distanza dall’evento traumatico e provando una sensazione di liberazione; la vendetta viene agita nel mondo della rappresentazione scenica (senza conseguenze per la vittima!) ma permettendo al protagonista di esternare e dare forma alla propria sofferenza e rabbia.
L’opportunità, in una fase successiva, di riguardare e commentare il prodotto finito (assistendo alla proiezione della storia realizzata) favorisce ulteriormente la rielaborazione dei vissuti. Si tratta di un processo che ha affinità con l’effetto di “purificazione dalle passioni” che Aristotele attribuiva alla tragedia greca e, in tempi più recenti, che Moreno indica come elemento importante della terapia psicodrammatica.
Ragazzi che sono stati vittima di bullismo o di abbandono hanno potuto rientrare in contatto con il proprio vissuto negativo generando il bello, prendendosi cura di sè e avviando piccole (o grandi) trasformazioni.

La sfida di proporre la stessa attività ad un gruppo di ragazzi più “street”…

Ho provato a proporre questo tipo di lavoro anche alla Crew, il gruppo dell’Anno Unico più “street”, insofferenti ai setting maggiormente strutturati, spesso provenienti da contesti familiari e sociali difficili.
I ragazzi si sono divertiti molto, hanno giocato con le maschere, ne hanno provate diverse a testa ma si è creato un clima di confusione tale che i gruppi (un quartetto e due coppie) non sono riusciti a creare alcuna storia. Sono nate alcune belle immagini, che posto qui sotto, tutte molto violente ed evocative, ma anche quando le abbiamo riviste insieme non siamo riusciti a parlarne, i ragazzi erano distratti, le voci si accavallavano, quando qualcuno provava ad intervenire con argomenti pertinenti gli altri lo interrompevano con battute. In quel momento mi sono fatto molte domande: avrei dovuto dare un consegna differente? Non avrei dovuto proporre questo lavoro ad un gruppo di ragazzi con queste caratteristiche?

Lo spettro

Ad un certo punto però qualcosa succede… proiettata sul muro compare l’immagine qui sotto. Non mi ricordavo nemmeno di averla scattata io quella foto. Era un ritratto di gruppo che alcuni ragazzi mi avevano chiesto per ricordare quel momento:

Luca per primo notò la persona sulla destra, separata dagli altri. Aveva una maschera a specchio, un volto spettrale senza occhi, naso, bocca, solo il riflesso del mondo circostante
Luca si chiese ad alta voce chi fosse quello spettro, come fosse finito lì.
Da quella domanda semplice il clima (magicamente..) cambiò:
Hedi, acuto tirocinante, allargò al gruppo la domanda del compagno, invitando ognuno a proporre la propria teoria. I ragazzi si ascoltavano reciprocamente e rispettavano i turni di parola: “E’ uno spettro solitario”. “E’ triste, non ha amici, è venuto a ricordare che la felicità un giorno finirà”, “E’ una persona che è stata esclusa dal gruppo”… In poco tempo in quell’aula si sono materializzate e condivise alcune tra le paure più forti di questi ragazzi, paure “spettrali” in quanto indicibili, su cui si è potuto aprire un breve ma interessante e intenso spiraglio di riflessione.
Ritengo che questo quarto d’ora abbia dato senso all’intera attività, un piccolo fiore nel caos che in seguito, in sede di colloqui individuali, avrò modo di riprendere in modo più approfondito e generativo con alcuni dei ragazzi presenti.

Autoprodurre le maschere. Il lavoro con un gruppo di ragazzi disabili

Quelle che seguono sono alcune immagini in cui le maschere sono state costruite con il cartone, a testimonianza che non è vincolante possedere un propria collezione. Il lavoro è stato fatto da una collega con un gruppo di ragazzi disabili, all’interno di una lezione di inglese.

Sperimentazione al corso di formazione formatori “Alieni”

Durante il percorso Alieni, strumenti e metodi per il lavoro con i nuovi adolescenti nel seminario dedicato alla cultura nerd e ai ragazzi più isolati, spesso è capitato di proporre questo tipo di attività ai partecipanti (educatori, psicologi, formatori), che si sono sempre prodigati creando immagini e storie molto interessanti.. Ecco qualche loro immagine per concludere.
Questo seminario si svolge all’UESM Casa dei Giochi di Milano, patria nerd di ogni età. Le ultime due foto sono scattate nel suggestivo dungeon per LARP ad imbientazione dracula che si trova sotto l’edificio..

Anno Unico e hikikomori, una video-intervista

Dal canale di Hikikomori Italia una video-intervista per raccontare il lavoro all’Anno Unico con ragazzi che hanno alle spalle un vissuto di fobia sociale/scolare

Marco Crepaldi, fondatore di Hikikomori Italia mi ha invitato nel suo canale Youtube per raccontare dell’esperienza dell’Anno Unico, e in particolare del nostro lavoro con ragazzi che hanno vissuto situazione di hikikomori, e più in generale ragazzi con problematiche legate alla fobia sociale e scolare.

Questa società ci obbliga a mostrarci sempre felici?

I ragazzi riflettono sulla società in cui l’imperativo è “devi divertirti!”

Stavamo lavorando in aula all’Anno Unico. Si parlava libertà, aspettative, imposizioni sociali.
Propongo ai ragazzi un video che avevo da poco scoperto, intitolato “this is a generic millenium ad” (che da allora riproporrò spesso in aula, anche nelle formazioni con insegnanti e formatori).
Lo scopo di chi l’ha prodotto è quello di raffigurare – attraverso un lavoro di cut-up di altri video – l’immagine stereotipata che le pubblicità mostrano dei giovani. Un’opera che dipinge in modo didascalico la pressione a cui le nuove generazione sono di continuo esposte: bisogna essere sempre allegri, avere mille amici, partecipare agli eventi giusti, mostrarsi originali e di successo tra i pari. Il video è molto evocativo, se utilizzato in maniera esperienziale, attenti alle risonanze che suscita, può aprire spiragli di consapevolezza interessanti.

“Tu sei unico. Tu sei differente. Tu sei speciale. Noi lo sappiamo. Noi capiamo tutto di te. In particolare il linguaggio che usi quando sei online. Come T.O.T.S. B.R.B. e “Join the conversation”. l’hai detto, vero? Il fatto è che sei libero. Libero dalle parole con le vocali!. Libero dai limiti del colore naturale dei capelli.. I tuoi capelli sono completamente rosa. Tu balli tutto il tempo. In strada. Nella tua camera. E sicuramente con il tuo eclettico gruppo di amici. Wow Ephram suona l’ukulele! Chi se lo aspettava? Questo è il modo in cui i millennials si comportano… “

Al termine della proiezione chiedo ai ragazzi se c’è qualcosa nel video che li ha colpiti, cosa hanno pensato o sentito dentro di loro mentre lo guardavano. Dopo un primo momento di silenzio gli interventi che si susseguono sono molti. Il vissuto di fondo è un mix tra lo sturpore di fronte alla rivelazione di qualcosa di assolutamente nuovo e l’esclamazione “è ovvio che è così“! Il fatto che si possa tematizzare qualcosa che ogni adolescente sa ma che difficilmente viene detto pubblicamente li colpisce.
Dicono “è vero, è così..”, “Devi sempre divertirti.. uscire.. magari non hai voglia però non puoi.. sei uno sfigato se non esci..”, “devi farti vedere..”, “devi far vedere che hai tanti amici..”, “magari tu vuoi stare da solo ma non puoi..”

Il disegno di felipe

Mentre proseguiva la condivisione Felipe, che di solito si coinvolgeva molto in questo tipo di riflessioni, non parlava, era molto impegnato a disegnare.
Ad un certo punto mi porge il disegno. Mi dice “Ecco, questo è quello che succede!”.
Il disegno rappresenta un ragazzo con in testa un casco. Questo casco è uno “smile”, l’emoji che rappresenta un volto sorridente. Nel foro della bocca spalancata si intravede il suo volto reale, che invece è triste, affranto. Sulla sua maglietta c’è un segnale di divieto con all’interno un viso triste: “vietato non sorridere”. Alle sue spalle una città in macerie.

Il disegno di Felipe

Chiedo a Felipe se ha voglia di mostrare e raccontare a tutti il disegno. “Questo rappresenta come mi sento” dice ai compagni “questa società ti obbliga a farti vedere in un certo modo, soffoca delle parti di te”.
Gli chiedo cosa rappresentano le macerie dietro al personaggio “sono i problemi di tutti i giorni, che sono tanti, ognuno ha i suoi, le tensioni con i genitori, la scuola, trovare lavoro.., e poi sono il nostro passato, le storie, le sconfitte..”.
Dice che non sono cose di cui parli tanto, te le tieni dentro, i genitori o li ingigantiscono o li sminuiscono, allora alla fine non ti rivolgi più a loro, con gli amici in compagnia non se ne parla, ci si diverte, bisogna essere sempre presi bene. Magari c’è qualche amico con cui ne parli ma solo con pochi.

Christopher si inserisce: “…devi fare un pò il coglione. quando sei fuori, devi far ridere gli altri.. fumare.. non è che puoi parlare dei tuoi problemi.. “

La chat come luogo sicuro dove essere se stessi

Chiedo a Christopher se ci sono dei momenti in cui invece riesce davvero a parlare dei suoi problemi.
Lui risponde: “in chat!
Io sono sinceramente sorpreso “in chat?!” .. “si in chat, nella chat dei videogiochi on line” (Christopher è un gamer “duro”) “Io ho cosciuto in chat delle persone con le quali parlo dei miei problemi, gli racconto le mie storie e loro le loro..”

E perchè questo non succede con gli amici che vedi tutti i giorni?
Perchè in chat non li vedi. Non ti vedi in faccia. E non ti giudicano. Puoi parlare tranquillo.

Porto a casa questa scoperta. La chat, il luogo che per tanti adulti è un luogo negativo, dove con le persone si intessono solo rapporti superficiali, se non pericolosi, è invece per molti ragazzi uno spazio “safe”, al riparo del richiamo alla prestazione, all’essere sempre brillanti e goliardici, come invece richiede il rituale pubblico delle compagnie di adolescenti.

Un rito di chiusura: mostriamo le macerie

La lezione volge al termine e decido di proporre un piccolo rito di chiusura di questa attività, convinto che questi temi avremo dovuto sicuramente riprenderli.

Dico che la nostra missione è contrastare questa spinta della società a volerci sempre brillanti e performanti, far si che anche la parte oscura, le macerie, abbiano la possibilità di mostrarsi.

Utilizzando la lavagna come sfondo di proiezione e il proiettore ancora acceso, fermo a mostrare uno degli ultimi fotogrammi del video, chiedo se qualcono di loro voleva alzarsi e disegnare con il pennarello delle macerie, come sfondo agli attori felici ritratti nel video, come primo atto “psicomagico” per sancire i nostri intenti. Nel minuto seguente compaiono come “quinte” della rappresentazione in video case diroccate che richiamano il disegno di Felipe.

Guardiamo insieme il risultato, skippando anche tra i fotogrammi, Sorridiamo per le immagini che si creano. Ora le macerie sono presenti, le vediamo e forse insieme possiamo cominciare ad affrontarle insieme.

Ringrazio i ragazzi, dico che le loro riflessioni sono state molto interessanti per me, che spero che l’Anno Unico sia anche questo, un posto che possa anche accogliere la parte non luminosa di noi, in cui non ci sia l’obbligo per nessuno di mostrare felicità forzata.
Li saluto, si alzano, “bella!..”, a domani..

Youtube e apprendimento riflessivo. Parte 1: Rap, anime e neo melodici

Utilizzare youtube con gruppi di adolescenti come strumento di apprendimento riflessivo

L’idea in pillole:
Si chiede ai ragazzi di indicare titoli di video che loro ritengono particolarmente significativi. In seguito si guardano insieme. Il conduttore, attraverso specifiche domande e sollecitazioni, aiuta il singolo e il gruppo a fare i “movimenti dell’apprendimento esperienziale“, costruendo apprendimenti riflessivi.

La consegna

Entro in aula. Dopo una mezzoretta di aggiornamento chiedo ai ragazzi di scrivere su un bigliettino il titolo di un video reperibile on line che reputassero significativo. Un video che raccontasse qualcosa di loro o in generale dell’essere adolescenti oggi, del mondo che abitano. Chiedo che, al di là delle parole, fossero le immagini l’elemento comunicativo centrale. Potreva essere un video musicale, una pubblicità, il trailer di un film..

I ragazzi si mettono a scrivere subito, quasi senza rifletterci, pare che nessuno avesse difficoltà a trovare il titolo, qualcuno anzi mi chiede: “posso scriverne 2? 3?”. Io rispondo che va bene, ma cercando di metterli in ordine per importanza, in modo che uno, anche per pochissimo, la spunti sugli altri.

IL FIORELLINO DENTRO

Ritirati i bigliettini ci spostiamo nello spazio allestito per la proiezione. Vedremo i video uno a uno. Chiedo se qualcuno di loro vuole proporre il proprio per primo.

Si offre Diego. Subito ci tiene a precisare che non si tratta di un vero e proprio video, ma è solo una canzone accompagnata da un’immagine statica di una una ragazza “manga”.

Ok, anche se non era esattamente quello che avevo chiesto. Cerco il video su youtube e clicco play. La ragazza dell’immagine è molto bella, stesa che guarda il soffitto. La canzone ha una melodia triste. Diego dice che è una canzone “depressiva”. Il testo è in inglese, scorre in un angolo dello schermo, proviamo a tradurlo insieme ma lui ci dice che non sono importanti le parole. Lui ascolta questo pezzo quando pensa alla sua ragazza che vive in Svizzera, che può vedere solo nei mesi estivi. Ci racconta che lei è così come l’immagine del video, così bella. Gli occhi di Diego si fanno lucidi. Gli chiedo se vuole dare un nuovo titolo a questo pezzo, a partire dalle cose che ci ha detto, lui risponde senza pensarci troppo: “vorrei che tu fossi qui”. Alejandro, che fino a quel momento era sembrato distratto, vede Diego commosso ed esclama ad un tratto: “dentro di lui c’è un fiorellino”.

Io dico che forse c’è un fiorellino dentro ognuno di loro, e di noi. Solo che qualcuno lo tiene ben nascosto, lo ha messo in un’armatura perché è molto delicato.

Propongo di affiancare al titolo dato da Diego anche “Il fiorellino dentro”.

Alcuni annuiscono.

LACRIME

Il secondo a proporsi è Marco, ci dice che non vorrebbe condividere un video ma una canzone. Che la cosa importante è il testo (figuriamoci se ce ne è uno che segue la consegna!) È un pezzo hip-hop di Luchè. Se la cosa importante è il testo allora ho bisogno del testo: attraverso google lo recupero velocemente, lo copio su un foglio word e lo proietto, ingrandendolo il più possibile in modo che tutti lo potessero leggere.

Parte il pezzo, lo ascoltiamo mentre io faccio scorrere le parole. Al termine dell’ascolto chiedo a Marco di individuare il passaggio nel testo che gli risuona maggiormente. Lui indica questi versi:

Quando avevo bisogno di lei
Mi trovai con un coltello nella schiena
E un addio scritto a penna
E mo’ non credo più nell’amore

io lo evidenzio in neretto nel testo proiettato.

Marco racconta che gli ricorda una storia d’amore finita male. Che c’era questa ragazza che si era presa gioco di lui, lo aveva lasciato più volte e poi era sempre tornata chiedendogli di rimettersi insieme. Lui ci era sempre ricascato, finché un giorno ha trovato la forza per parlarle chiaro, dicendole quello che pensava, che non voleva essere più trattato in quel modo. Chiedo a Marco se quella vicenda gli ha portato qualche insegnamento. Lui risponde che ha capito che è meglio parlare chiaro e il prima possibile anche se abbiamo paura, che il silenzio a volte è un buon alleato ma non sempre.

Dopo un momento di silenzio Marco riprende la parola, vuole aggiungere un’altra riflessione: “anche a me è capitato in un modo simile di prendermi gioco di alcune persone, questa cosa mi fa pensare..”

Gli chiedo se c’è un altro passaggio del testo che vorrebbe sottolineare. Lui ci indica questo:

So che non è facile
Credere ai miei occhi quando sono fragile
Guardare attraverso le mie lacrime

La parola lacrime tocca molti del gruppo, avevamo appena intravisto quelle di Diego. Sembra che emerga ancora più forte quella sensazione di vulnerabilità, quel fiorellino interiore protetto dietro i loro fisici e atteggiamenti che paiono inattaccabili. La cosa forse più importante educativamente e che ci si inizia ad accorgere che siamo in un gruppo in cui anche le vulnerabilità possono emergere ed essere accolte. Non una cosa da poco.

SI NASCE E SI MUORE, CI SI INCONTRA E CI SI LASCIA

Il video seguente è di Paolo. Ci propone Daniele Marino, cantante neo-melodico che non conoscevo, ma a quanto mi raccontano i ragazzi molto famoso.

Il video comincia con un incidente d’auto. Due fratelli camminano sul marciapiede, quello più grande è distratto dal telefono e attraversa la strada mano nella mano con quello più piccolo. In quel momento passa un’automobile e quest’ultimo viene colpito e buttato a terra sulla strada.

A questo punto il video comincia un surreale botta e risposta tra il cantante e il bambino steso sull’asfalto, il primo che chiede perdono e si dispera, il secondo che riflette sull’ineluttabilità del destino. Durante questo dialogo i protagonisti ripercorrono tutta la loro vita, e si scopre che anche la loro mamma è scomparsa prematuramente. Sebbene il video, ai miei occhi, rasenti il ridicolo, la tensione emotiva nel gruppo è molto alta. Ad un certo punto decido di fermarlo perché i ragazzi sembrano non riuscire più a reggerlo, e perchè so che per un di loro la ferita per la morte del padre è profonda e ancora aperta. Quando si lavora coinvolgendo i vissuti personali uno dei compiti più difficili del formatore è quello di mantenere una temperatura emotiva sufficiente per dare intensità e profondità al lavoro, ma non oltre quella che il gruppo può reggere e gestire.

Paolo racconta che questo video gli fa pensare al suo fratello in Ukraina, che non ha mai più visto da quando è stato adottato e ha lasciato quel paese. Sentendo quelle parole Samuele e Diego in contemporanea dicono “Anch’io sono ukraino!”. Era il secondo giorno di Paolo all’Anno Unico, questa “carrambata” ha generato subito un legame, o quantomeno un ponte importante.

Dopo aver nominato suo fratello il volto di Paolo si era coperto di un velo di tristezza, durato finché all’improvviso non si ricompone e dice: però mi sta per nascere un nipotino, il figlio di mia sorella, e sono felice!

Si avvia allora tra i ragazzi un discorso sulla vita, sul fatto, ovvio ma forse impossibile da realizzare nella sua enormità che nella vita si nasce e si muore, ci si incontra e ci si lascia. Io penso a quanto sia importante lavorare su questi argomenti oggi, in un mondo in cui la cultura dominante nasconde il dolore (o lo trasforma solo in pornografia emotiva) e nega il limite e la fine.

PERDONAME MADRE POR MI VIDA LOCA

Ora tocca al video di Deborah. Ci propone la canzone di un rapper russo, Kalin Ryse Nikolov; il pezzo si intitola Mama I’m a criminal. Il video è molto violento, utilizza le prime immagini del film Batman il cavaliere oscuro in cui un gruppo di malviventi vestiti da clown rapinano una banca, uccidendosi a vicenda uno alla volta. Mi chiedo cosa ci voglia comunicare con delle immagini così forti e come potrò lavorare su questo video.

Ho imparato che in queste situazioni la cosa migliore da fare è evitare elucubrazioni e chiedere direttamente al ragazzo la strada da percorrere con lui. Il video è un oggetto mediatore tra di noi (e tra il ragazzo e se stesso), è importante quindi capire quale aspetto del video risuona in lui, quello che ci vuole comunicare attraverso quell’opera. Il rischio è che noi formatori coinvolgiamo i ragazzi nell’indagine di aspetti che colpiscono noi, andando completamente fuori strada rispetto le risonanze dell’adolescente. A volte i ragazzi ci portano un video o un opera d’arte perchè entrano in contatto con piccoli particolari che a noi possono sfuggire o sembrare secondari. Rimanendo in ascolto attento e mettendo da parte il nostro ego da quei piccoli spiragli possono nascere riflessioni importanti.

Mi rivolgo quindi a Deborah: “Quali tra queste immagini ti risuonano di più Debby? perché?”. Lei mi risponde, spiazzandomi, che non gli interessano le immagini, che lei quella canzone di solito la ascolta in cuffia mentre cammina per la città: non le importa il video e nemmeno il testo (che non capisce). Vuole porre l’attenzione solo sul titolo.

Sbang!! Se avessi iniziato a proporre stimoli sull’analisi delle immagini avrei sbagliato completamente!

Deborah è lapidaria “questo titolo evidenzia la difficoltà di dire le cose di cui ci vergogniamo alle persone a cui vogliamo bene”. Si vede che non ha voglia di approfondire troppo, però è bastata questa frase per far passare una scarica emotiva e di rispecchiamento in tutto il gruppo. Lo si vede da come per un istante sono cambiate le espressioni. La delusione e la paura di deludere sono alcuni tra i sentimenti più presenti all’Anno Unico: la delusione dei famigliari per il fallimento scolastico, per alcuni anche i guai con la legge in cui si sono cacciati.

Alejandro, che viene dall’Ecuador, ci racconta che i carcerati appartenenti alle gang si facevano tatuare sulla palpebre la scritta “perdoname madre por mi vida loca”. La ragione per cui o scrivevano proprio sulle palpebre era perché così gli altri, in particolare la propria madre, lo avrebbero visto solo quando sarebbero morti.

Alejandro sottilinea la dimensione della vergogna che vivono queste persone nei confronti di chi amano di più. I ragazzi non esplicitano i motivi, per ognuno diversi, della loro vergogna, ma con breve frasi o cenni del corpo si mostrano coinvolti e partecipi al tema che risuona di volto in volto.

SUPER SAYAN

E’ il momento di andare verso una chiusura, ci sono altri video da vedere ma vanno rinviati alla volta successiva. Il lavoro è stato intenso. Faccio spontaneamente i complimenti ai ragazzi, per la loro profondità, per i discorsi importanti che avevamo fatto. Ci sentivamo tutti appesantiti. Io avrei proposto un giro di sharing ma non mi sembrava ci fosse la predispozione adatta. Qualcuno dice: Perchè per rilassarci un po’ non ci guardiamo Dragon Ball? In risposta arriva un coro di “si dai!” “ci sta!”. Io dico ok, senza pesarci troppo, abbiamo tutti bisogno di un momento di decompressione. Chiedo loro quale stralcio di Dragon Ball vorrebbero vedere. Sono tutti d’accordo, chiedono quando per la prima volta Goku si trasforma in Super Sayan.

Lo vediamo insieme. “Mi vengono i brividi!” esclamano tanti durante la proiezione (anche un giovane collega, entrato nel frattempo in aula). Raccontano che gli veniva in mente quando quella scena l’avevano vista per la prima volta da bambini “Il mio più grande desiderio era diventare dei Super Sayan!” dice uno. Qualcuno dice che si chiudeva in bagno e urlava come Goku per trasformarsi. Ma non succedeva niente. Altri rispondono “anch’io!”.

Mi è subito venuto alla mente quando da bambino io sognavo di trasformarmi in Hurricane Polimar un eroe delle anime dei primi anni ottanta.

Interviene Corrado, con tono di voce serio: “…è che ad un certo punto ti accorgi che non puoi trasformarti. Diventi grande e capisci che non puoi essere un Super Sayan. Capisci che nella vita devi sbrigartela da solo..”

Penso che la prossima volta mi piacerebbe ripartire da qui, mi stupisce quante cose importanti emergono semplicemente dandogli gli strumenti per raccontarsi e riflettere.

IO CREDO IN ME

Le tre ore di aula stanno per terminare. I ragazzi chiedono se come conclusione della giornata potevano vedere insieme la sigla di Naruto (ormai siamo entrati nel mood “gli anime che mi hanno aiutato a crescere”..). Io non l’avevo mai vista, anche se della lunga serie di questo cartone animato ho visto buona parte. Il titolo è didascalico, pura pedagogia nerd: “io credo in me”.

I ragazzi vanno a sdraiarsi nell’ “angolo morbido” dell’aula dell’Anno Unico. Sono un pò scomodi per vedere la proiezione ma hanno voglia di “accucciarsi”. Cercano un momento di cura, rifugiarsi un attimo nella loro infanzia. Si tratta di un viaggio regressivo ma sereno, che genera gruppo, voglia di tornare a quel momento della loro vita in cui ancora credevano nel futuro. Si accoccolano, e parte la musica..

ps: i nomi potrebbero non essere proprio quelli reali..