Voglio una cornice! Una vita per le immagini, al di là dei social

Un’attività per liberare foto e immagini che custodiamo nei nostri dispositivi o che abbiamo affidato ai social network. Per farle respirare, dargli voce, renderle spazio di incontro.

inizio a pubblicare qualche frammento dal manuale di pedagogia hacker, che piano piano prende forma, su cui da tanto ragioniamo con i soci di C.I.R.C.E.
Se ti interessa solo l’attività da fare con i ragazzi scrolla giù fino a che  trovi “L’ATTIVITA'”

Con Carlo (“Karlessi” Milani) eravamo alla Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano – corso Teoria delle arti multimediali – il compito era stimolare negli studenti uno sguardo critico sulle tecnologie digitali, partendo anche dal presupposto che ne avrebbero fatto largo uso nel loro percorso professionale.

Ad un certo punto avevamo chiesto, approfittando delle loro competenze, di produrre dei disegni o semplici prodotti digitali per restituirci le loro risonanze agli stimoli che fino a lì avevamo portato.

Tra i tanti lavori interessanti uno studente ci invia un’immagine che – ci spiegherà poi in fase di restituzione – rappresenta il potere della fotografia, sua passione, di aprire sguardi nuovi.

Marco, così si chiamava, sottolinea il valore di quest’arte per indagare il mondo e guardarlo con altri occhi. Al termine della sua riflessione aggiunge però una nota critica che ci colpisce molto: sottolinea la frustrazione nell’utilizzo dei social network per presentare al mondo le proprie opere.
Ci racconta con dovizia di particolari che dietro ad ogni foto che pubblica c’è un lungo lavoro: la ricerca del soggetto, la prospettiva, la luce…, spiega che magari prova 100 volte la stessa posa prima di trovare la forza comunicativa che cerca. Il problema è che però, quando arriva a caricare le sue opere migliori su instagram, o flickr, è consapevole che l’attenzione che il pubblico dedicherà ad ognuno di questi lavori sarà di pochi secondi (o meno…) dopodiché ricomincerà lo scroll frenetico, e mille altre immagini ne cancelleranno la memoria.

“Che la mia foto riceva o no un like non cambia, anche il like si consuma in un centesimo di secondo, il problema è che se non ci si ferma di fronte all’immagine, se ne perde tutto il valore!” ci dice.

Quando una fotografia parla per davvero

Sentivo che sarebbe stato interessante e prezioso approfondire ulteriormente la questione.
Mi aveva colpito il modo in cui Marco parlava delle suo fotografie, c’era fierezza e affetto, sembrava che parlasse di creature animate; mi ha solleticato così l’idea di provare a dare voce davvero a una di queste immagini. Cosa ci avrebbero raccontato?

Vuoi fare un esperimento?

Propongo allo studente di sottoporsi ad un esperimento, se gli andava di impersonificare come un attore una delle sue foto per esplorare ulteriormente gli stimoli interessanti che ci aveva portato. Si tratta della tecnica psicodrammatica dell’ “inversione di ruolo“, in vero rischiata un pò così, incautamente, a freddo: non conoscevo le persona che avevo davanti, non sapevo se sarebbe stato la gioco, se fosse stato nella condizione adatta per immedesimarsi e lasciarsi andare alla spontaneità e creatività.
Dai quei pochi elementi che possedevo, con un pò di fiuto e di azzardo, intuivo che avrebbe potuto funzionare; e ad ogni modo in caso non avesse funzionato sarei stato subito pronto a fare un passo indietro.

Ascoltare una foto che parla

Con molto coraggio, curioso e un pò perplesso, Marco viene alla cattedra, di fronte ad un’aula molto affollata.
Gli chiedo di fare tre giri su se stesso (la cosa per lui si fa ancora più imbarazzante, ma sta al gioco…) sapendo che quando si fermerà si sarà trasformato nella sua foto, così che io potrò iniziare a intervistarlo.
Di seguito i passaggi più significativi di questo strano incontro:

-Buongiorno foto. Piacere di incontrarti. Anzitutto puoi raccontarci cosa raffiguri?

Sono la foto di una falesia, la parete di una montagna, con una luce molto particolare, guarda come sono rosa.. da un’idea di serenità e di mistero..-

– Come è stato il momento in cui sei nata, lo ricordi?


– Si, lungo, quasi estenuante, però Marco si è preso molta cura di me; lui è un perfezionista sai… guarda come sono venuta bene, devo proprio ringraziarlo!


– Senti foto, io però so che c’è qualcosa che non ti lascia serena, me lo diceva

Marco prima. vuoi parlarcene un pò?

– Certo… Io arrivo al mondo attraverso i social network. Questo mi permette di arrivare a tante persone, mica come le foto di un tempo che rimanevano chiuse negli album, che le vedevano poche persone e poi le dimenticavano. A volte ho anche tantissimi like sai?

Il problema è che tutti si approcciano a me con superficialità – un’occhiata e via – distratti da tanti altri stimoli che ci sono nel mondo digitale, e io mi sento persa in mezzo a mille contenuti buttati li tanto per dire “esisto”.

– Ma quindi cosa vorresti?


– Ti confesso che sono molto gelosa delle foto nelle mostre, dei quadri nei musei, dove le persone si fermano, gli dedicano del tempo, le commentano, ci riflettono. Beate loro, io invece costretta in questo frullatore…


Senti vuoi riassumere tutto quello che mi hai detto in un messaggio da mandare al mondo?


– Si (Marco-foto ci pensa un pò)
…voglio una cornice!!!

Questo incontro ha ispirato un’attività che abbiamo chiamato proprio “voglio una cornice!“, che è stata poi proposta tante volte nei percorsi educativi con pre-adolescenti o adolescenti, ma che sicuramente, nella situazione giusta, potrebbe funzionare anche in un contesto più adulto.

L’ATTIVITA’

“Fermare” le immagini

L’attivazione è molto semplice.
Chiediamo ai ragazzi di cercare sul proprio telefono una foto, o in generale un’immagine che loro hanno prodotto, che magari è già stata condivisa sui social network (ma anche no), che ritengono meriti attenzione perché per loro particolarmente significativa, che dice qualcosa di importante di loro, o del loro sguardo sul mondo; un’immagine che, appunto, meriti “una cornice”.
Non devono per forza essere opere d’arte (o sedicenti tali) come nel caso raccontato prima, vale qualsiasi foto o immagine che abbia un significato per chi la conserva nel proprio telefono, e che rischia di perdersi nel mondo sovraccarico del digitale.

Spegnere le luci, uscire dal dispositivo

Per prepararsi ad un lavoro del genere è utile un momento di riscaldamento che possa aiutare i partecipanti ad entrare in contatto e creare un clima di complicità e intimità.
Uno degli elementi di base di questo lavoro è la creazione di un ambiente raccolto per condividere insieme le immagini, e questo può essere aiutato anche da elementi scenografici: per noi all’ Anno Unico è importante abbassare le luci, non solo per vedere meglio l’immagine proiettata, ma anche perché la penombra ci avvolge, unisce e protegge.

A questo punto proiettiamo le immagini una alla volta e prendendoci per ognuna tutto il tempo che merita. Le foto vengono così liberate dalla gabbia del dispositivo, scompare il rumore di fondo di altri mille contenuti, scompaiono i likes, è sabotata la possibilità di scrollare con il gesto automatico che siamo soliti fare, e si aprono spazi di connessione (con se stessi, con gli altri) imprevisti.

C’è qualcosa in questa attività che ricorda la “serata diapositive” frequenti prima dell’avvento del digitale. Le foto erano mostrate solo ad una cerchia stretta, si raccontava, ci si fermava su quelle che avevano un’importanza particolare. Il problema in quei casi era la prolissità, e il fatto che il proiettante era il centro della serata mentre gli altri poco più che spettatori (e ad un certo punto scattava anche qualche sbadiglio…). Con questa proposta si recupera il lato di intensità di quell’esperienza, con il valore aggiunto della circolarità e simmetria delle diverse voci, dello scambio come fondamento del lavoro.

Ad ognuno il suo spazio

La dinamica del lavoro è semplice: ogni ragazzo a turno presenta la propria foto, può raccontare quando l’ha fatta, quali sono i particolari che dovremmo notare, perché la ritiene significativa. Gli altri possono solo fare domande (alla base dell’ascolto attivo…); non si più commentare, non si può giudicare.

Volendo si possono anche utilizzare tecniche di conduzione più raffinate per approfondire l’analisi riflessiva (inversioni di ruolo, fumetti, riproduzione “live” della foto), ma nella maggior parte dei casi io preferisco lasciare il tutto “leggero”, confidenziale. Aggiungendo al limite la richiesta di un titolo per l’immagine al termine di ogni presentazione.

…DAL DIARIO DI UNA SESSIONE

Le immagini che i ragazzi in genere portano sono molto differenti. Di seguito racconto ciò che è emerso durante una sessione con i ragazzi dell’ Anno Unico, un paio di anni fa.
Si tratta di un gruppo, per quanto eterogeneo, che aveva in quel momento già fatto un importante percorso di condivisione e lavoro insieme, in cui c’era già un buon livello di fiducia reciproca e capacità di ascolto.

Anzitutto, la famiglia

Alcuni partecipanti al gruppo hanno scelto di portare foto di propri famigliari (ma mai genitori o fratelli..), appartenenti alla cerchia allargata che sono stati rifugio e riferimento in momenti difficili.

Pablo ha portato un montaggio di foto di alcuni parenti in Perù, fatta con photocollage, un’applicazione per smartphone: ci sono i suoi zii e i suoi cugini sorridenti. Ci racconta che a loro è molto legato, purtroppo li vede poco perché vivono lontani, però sono come fratelli per lui, e non vede l’ora di ri-incontrarli.
I compagni chiedono alcune informazioni per saperne di più, incuriositi da alcune pose o elementi nella foto.

Alex porta una foto che ritrae i suoi giovani zii: “mi capiscono più dei miei genitori, per fortuna che ci sono loro, senza di loro non so dove sarei ora…” ci dice..

L’istantanea di Laura invece ritrae lei con la sua anziana nonna; “l’ultima foto fatta insieme prima di morire” ci confida “la nonna ha significato molto per me“, poi rimane in silenzio, commossa. La Laura ne ha passate tante, tra comunità e ricoveri in ospedale, e a noi in quel momento ha voluto portare un pezzo importante di sé; se lo ha fatto è perché ha ritenuto che potesse fidarsi.
Il valore di un lavoro come questo è che ognuno sceglie come starci, a quale livello di intimità esporsi. I compagni la guardano con sguardi pieni di vicinanza, è un silenzioso abbraccio di tutto il gruppo; Lorena, la sua amica, la abbraccia davvero.

La mia arte per raccontare di me

Felipe invece ci presento uno screenshot tratto dal suo profilo instagram. E’ una sua produzione artistica, realizzata con un’app per ipad. Lui è un appassionato di disegno (già un suo lavoro era stato pubblicato in un articolo, qui). Si tratta di un proprio “autoritratto digitale”, realizzato con cura, in cui il volto è diviso a metà; una metà è più serena, l’occhio è chiuso, mentre l’altra dà idea di “essere sull’attenti”: l’occhio è aperto e il volto meno rilassato. Ci racconta che in quel lavoro possiamo capire chi è veramente, e per questo ne è molto soddisfatto. Rappresenta il suo lato sognatore, quanto sia importante per lui fantasticare, la serenità dei momentitranquilli e creativi. E insieme c’è il Felipe che deve essere sempre sull’attenti in un mondo difficile, fatto di soddisfazioni ma anche minacce e sofferenze.

Samuele e Antonio non condividono invece immagini particolarmente intime o personali, ma non si sottraggono a condividere qualcosa di sé, che si rivelerà comunque molto importante
Samuele ci mostra la foto che ha fatto ad un graffito. Ci dice che rappresenta il livello tecnico a cui aspira: ci fa notare come le lettere sono state decostruite, come si intrecciano, come tutto ciò trasmetta un senso di movimento, di vita; la “il nome si è trasformato in un essere biologico e meccanico insieme” ci dice. Ci fa notare la precisione del tratto, spiegandoci quando è difficile realizzare un’opera del genere con gli spray.

La bellezza del codice

Antonio, molto riservato, all’inizio aveva dichiarato che non avrebbe partecipato. Quando però gli ho ricordato che non era necessario portare una foto, e al limite nemmeno un’immagine originale, inizia a trafficare con il suo telefono, gira un pò nel web e poi mi invia il suo contributo. Si tratta del codice di un software in caratteri verdi, a “cristalli liquidi” come nei monitor di un tempo, su fondo nero. “La bellezza del codice” è il titolo che gli dà. “Nessuno capisce quello che vuol dire…”, ci dice con sguardo beffardo. Aveva trovato, con il suo stile, provocatorio e protetto, un modo per contribuire al momento di condivisione; sembrava che anche la sua immagine ci stesse dicendo “per capirmi c’è bisogno di tempo, non sono così immediato”.
Mi ha fatto tornare in mente quando il nostro amico Baku, uno dei più potenti coder italiani, durante una delle reading che organizzavamo tempo fa in una baita in montagna, aveva letto il Kernel di Linux, con un’espressività tale che anche a me, che non so nulla di programmazione, era sembrato di capirne i contenuti, e in cui si palesava tutta l’intensità della sua relazione con quello strano linguaggio.

Fanculo al sole!

Per ultima tocca ad Lara. Porta una foto scatta da lei, e postata recentemente su Instagram. Ritrae il suo dito medio alzato e sullo sfondo un tramonto. Poteva sembrare anche questa una provocazione (e ci sarebbe anche stata…) ma scopriremo presto che non lo era per niente. Lara ha un fare molto serio, e inizia a raccontare: “anzitutto sono molto fiera perchè questa foto mi è venuta molto bene” “rappresenta quello voglio dire…“. Ci racconta che la foto è stata scattata al tramonto, il momento per lei più bello della giornata, perchè ne segna la fine, si abbassano le ansie e può godersi un pò di tranquillità. Al contrario la mattina rappresenta per lei la fase più ansiogena: non sa cosa potrà accaderle quali problemi dovrà affrontare. La foto immortala la luce che scompare, il giorno che si congeda al quale lei da il proprio personale saluto. Il titolo, piuttosto didascalico ma efficace, è “fanculo al sole“.

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Mamma, papà, ora vi spacchiamo il telefono! …e se il problema fossero gli adulti? un racconto di insurrezione

Attraverso un lavoro di narrazione fantastica i ragazzi riflettono su alcune problematiche legate alla dipendenza da strumenti digitali. Ciò che emerge è tutt’altro che scontato…

All’Anno Unico, durante il percorso di Pedagogia Hacker, abbiamo chiesto di ipotizzare possibili soluzioni agli effetti nocivi degli strumenti digitali.
I ragazzi dovevano scrivere un racconto di fiction in cui si ipotizzassero risposte virtuose, in particolare al problema della dipendenza.

Dovevano immaginare di scrivere lo script di un film (spesso, come sappiamo, per gli adolescenti è più facile creare una narrazione chiedendogli di immaginare che sia la trama di un film o di una serie tv); le soluzioni presentate nel testo potevano essere anche fantastiche, era permesso osare senza censure.

L’idea era provare a superare l’immaginario distopico tipico di narrazioni in stile Black Mirror, volevamo sfidare l’impotenza che questi racconti suscitano permettendoci anche soluzioni assurde, e non necessariamente politicamente corrette.

Questo è il brano che il gruppo, 6 ragazzi poco “scolarizzati” ma molto intelligenti hanno creato, senza nessun suggerimento da parte dell’adulto: 

Un ragazzo nella sua famiglia. È il figlio più piccolo. Si rende conto che si sente solo perché i genitori non parlano: non parlano tra di loro, non parlano con lui. Studia allora un metodo per staccare i genitori dal telefono.

Fa diversi tentativi:
-prima stacca il wi-fi
-poi rompe i telefoni ai genitori (glieli rompe di notte, nei pochi momenti che non li hanno in mano)
-allora gli stacca la sim da telefono e gliela butta via

Questi metodi però non funzionano.
Cerca allora di far sentire i genitori in colpa perché non fanno il loro dovere.
Denuncia l’azienda dei telefoni, cerca delle prove che la colpa per cui i genitori non si parlano è dell’azienda dei telefoni.

Chiama un amico, gli chiede come va, lui gli dice che la situazione a casa sua è simile, allora insieme decidono di creare un gruppo. Si danno un appuntamento in un posto segreto, vanno all’azienda che produce i telefoni, si presentano nell’ufficio del proprietario dell’azienda. Gli dicono: “guarda, i nostri genitori non pensano più a noi”, poi lo mandano affanculo e lo menano. Menano il signore dei telefoni.

Poi se ne vanno e fanno scattare la seconda parte del loro piano.
Tolgono l’elettricità a tutta la città. La gente rimane al buio ed è costretta ad utilizzare le candele.
Le persone senza luce con il passare dei giorni vanno in depressione, iniziano ad esserci diversi suicidi, la gente inizia a protestare, c’è una rivolta perché i cittadini rivogliono l’elettricità.

I ragazzi allora propongono un patto: se vi ridiamo l’elettricità tutti i telefoni devono sparire .

Quarto stato cyborg – Bologna Livello 57

Spunti di riflessione

Sebbene si tratti di un testo che a molti colleghi potrebbe far storcere il naso, scritto da ragazzi piuttosto allergici alla scrittura (e alla lettura, e ai contesti scolastici..), contiene alcune intuizioni ed elementi di saggezza che è bene elencare, che in aula abbiamo in seguito approfondito insieme:

  • I primi responsabili di tutta questa questione non sono gli adolescenti. Il problema sono gli adulti che progettano e guadagnano sul tempo che dedichiamo allo smartphone. Molte delle piattaforme digitali che usiamo quotidianamente sono progettate per generare dipendenza, da team di ingegneri e psicologi “passati al lato oscuro”. Gli adulti inoltre, nel ruolo di utilizzatori, sono dipendenti come e forse più dei ragazzi.
  • Il ruolo, rimosso, dell’economia e del conflitto. La dimensione economica, il capitalismo ha un ruolo importante in questa partita, anche se la maggior parte di “media educators” evita o marginalizza la questione, “E’ colpa vostra che utilizzate male lo strumento”, fanno intendere. I ragazzi nel loro racconto invece hanno messo in evidenza qualcosa di diverso e ci ragguagliano, con linguaggio colorito, che se si desidera il cambiamento bisogna mettere in conto anche un importante livello di conflitto, che non basteranno i ravvedimenti interiori.
  • Sortirne insieme. La dipendenza da strumenti digitali ha una dimensione sociale e politica, non può allora essere affrontata dall’individuo da solo. Bisogna allearsi, come i ragazzi nella storia, “sortirne insieme”, come ripeteva don Milani.

Come spesso accade i ragazzi hanno detto le cose con molta semplicità, ma in modo molto efficace, elementi che la media education e in generale tutta l’educazione al digitale in generale tace o mette in secondo piano. Sta a noi saper ascoltare…


Come imparano gli hacker?

Dalla comunità hacker un modello di apprendimento curioso, divertito, personalizzato e allo stesso tempo collettivo, in cui la conoscenza è un bene comune.

C.I.R.C.E., con la definizione di Pedagogia Hacker intende evidenziare il valore pedagogico, in un’ottica di pedagogia critica, delle competenze e attitudini che caratterizzavano i primi computer club e gli hackerlab, terreno culturale in cui alcuni di noi hanno mosso i propri primi passi.

Formazione dopo formazione ci siamo resi conto di come questo tipo di approccio, critico e creativo, può essere una base utile per ripensare la formazione all’utilizzo consapevole degli strumenti digitali, e in generale per ispirare modelli didattici e di apprendimento alternativi.

illusttrazione Hackmeeting 2016 – Pisa

Possiamo, generalizzando il concetto di hacker, pensare che un tale approccio pedagogico si fondi su alcuni elementi di base:

– Approccio curioso e problematizzante rispetto al mondo e nello specifico alla tecnologia

L’hacker è un individuo che si pone delle domande, problematizza la realtà intorno a sè. Quando ha individuato un problema che gli sembra interessante inizia a lavorare per cercare di risolverlo. E’ una persona profondamente curiosa, appassionata di tecnologia; il suo primo desiderio di fronte ad un oggetto tecnologico è quello di smontarlo, vedere come funziona, casa c’è dentro. Per lui nessun artefatto è obsoleto perché sa che ogni cosa può essere re-inventata, ri-combinata, ri-adattata ad usi anche molto lontani da quelli per cui è stata creata.

– Apprendimento come piacere

Ciò che muove l’hacker al continuo apprendimento è il piacere stesso di apprendere. Gli hacker programmano con entusiasmo, amano affinare le loro competenze e mettere a frutto la loro intelligenza. Ogni problema diventa una sfida, un’occasione appassionante per mettersi alla prova. Il motivo primario che lo spinge ad apprendere e faticare non è la possibilità presente o futura di cospicui guadagni, è il piacere di superarsi, di creare, il divertimento di scoprire soluzioni funzionali ai problemi percorrendo strade non ancora battute.

Logo del Chaos Computer Club, collettivo tedesco che dagli anni 80 porta avanti i principi dell’hacking

– Apprendimento come frutto di ricerca ed esperienza personale, non inquadrabile in percorsi di studio ufficiali

La formazione degli hacker segue principalmente canali non ufficiali, è un percorso di ricerca personale che parte anzitutto dall’ hands on, il “metterci le mani sopra”.

L’hacker sceglie autonomamente di volta in volta i propri obiettivi di apprendimento e auto-organizza proprio tempo di lavoro-studio non imbrigliato in un sistema di rigidi dispositivi di apprendimento e titoli riconosciuti.

– La dimensione sociale del sapere e la conoscenza come bene comune

Ogni hacker sente il dovere di far circolare ciò che ha imparato. Considera la conoscenza un bene collettivo quindi ritiene fondamentale metterla a disposizione di tutte le persone a cui potrebbe essere utile. La conoscenza è vista come un bene che si può costruire solo collettivamente e non può essere arginata da leggi che la imbriglino.

Questi elementi evidenziano un modello pedagogico ben preciso, per molti versi lontano da quello mainstream. I percorsi di apprendimento sono personalizzati e non basati su programmi standard imposti per tutti, i titoli di studio perdono di significato. Gli hacker non apprendono per aspirazioni di alti guadagni, o per arricchire un curriculum apprezzabile nel sempre più esigente mercato del lavoro. Ciò che muove l’apprendimento è la passione e il riconoscimento da parte della comunità dell’utilità del proprio lavoro e delle proprie scoperte, il desiderio di capire come funziona il mondo per poterlo migliorare. Grande valore ha la dimensione collaborativa e dialogica di apprendimento tra pari.

Un approccio pedagogico controculturale

Si tratta quindi di una prospettiva valoriale, formativa, pedagogica, fortemente in contro-tendenza con l’istituzione scolastica e accademica attuale dove utilitarsimo, trasmissione depositaria dei saperi, programmi rigidi, appiattimento della formazione alle richieste del mercato, copyright, limitazione della dimensione critica, sono gli ingredienti frequenti.

dal mio contributo per il testo di Ippolita “Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale”, Meltemi, 2017
Qui puoi scaricare il capitolo completo

Fra teatro e fumetto. Un’attività espressiva per adolescenti che non amano esporsi

Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi, non a loro agio in attività di tipo teatrale.

Le idee in pillole:
1 – Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi e non a loro agio in attività di tipo teatrale.
2 – Proporre ai ragazzi di utilizzare i loro smartphone, con applicazioni semplici e intuitive, per creare narrazioni attraverso le quali esplorare il proprio mondo interiore
3 – Creare occasioni di espressione di sè in cui si garantisce al ragazzo la possibilità di proteggersi dall’esposizione diretta allo sguardo dell’altro, proponendo un’alternativa all’imperativo “mostrati!” della società attuale.

Riferimenti metodologici e ambiti di ispirazione:
Metodologicamente i principali riferimenti si possono ritrovare

– Nello storytelling digitale in una prospettiva di apprendimento esperienziale
– Nello psicodramma moreniano e in particolare il lavoro con la maschera di Mario Buchbinder
L’ideazione della proposta è sicuramente influenzata da pratiche quali il cosplaying, il gioco di ruolo e il LARP (Live action role-playing)


Mettersi in gioco per piccoli step

In genere quando si propone un’attività di tipo teatrale i ragazzi meno a loro agio con la corporeità, più introversi o magari con sintomi di fobia sociale, la risposta è (intuitivamente) un rifiuto. In un’ottica di “pedagogia nerd” una possibilità in questi casi può essere accompagnare a lavorare sugli obiettivi formativi che ci si è proposti (attivazione del corpo nello spazio, espressione del mondo interiore attraverso la fisicità, creazione di relazioni..), ma per piccoli step, dando loro la possibilità di rimanere protetti e mantenersi in un ambiente conosciuto e a loro congeniale (il mondo fantastico).
Quello che segue è un esempio di questo tipo di attività.

Se qualche collega è incuriosito e vuole provare a proporre qualcosa di simile non si scoraggi dall’utilizzo delle maschere (materiale non facile da avere a disposizione). Un lavoro simile si può fare anche realizzandole in cartone (come si vedrà in fondo al post) oppure utilizzando altri espedienti.

La scoperta delle maschere

I tavoli dell’aula dell’Anno Unico erano coperti di tante maschere diverse. Alcune orrorifiche, altre misteriose, altre curiose, altre ancora simpatiche e rasserenanti.
Ogni ragazzo era invitato a prenderne una che gli risuonasse. La consegna era “prendi la maschera che ti chiama.. fatti scegliere da lei..”.
Una volta scelta la proposta era di indossarla ed eventualmente completare il travestimento utilizzando stoffe e mantelli, e aggiungendo altri gadget come bacchette magiche, campanellini, armi in legno.. A loro disposizione c’era uno specchio, o in alternativa per guardarsi potevano utilizzare i loro cellulari in modalità “selfie”.

A questo punto la richiesta era di provare a immaginare chi fosse quella maschera, quale storia avesse, quale missione nel mondo, annotando appunti su un foglio. Ho utilizzato come stimolo una scheda personaggio simile a quella di un gioco di ruolo, o di un videogioco, sottolineando che non era obbligatorio compilarla tutta.

Inventare le storie a gruppi e realizzare i frame fotografici

I ragazzi erano poi invitati a guardarsi intorno, osservare gli altri e unirsi in piccoli gruppi facendo incontrare le maschere che secondo loro avevano “qualcosa da dirsi”.
Compito di ogni gruppo era inventare una storia i cui protagonisti fossero i personaggi nati dall’attivazione precedente.

La storia quindi doveva essere divisa in alcuni frames fotografici: i ragazzi mascherati dovevano mettersi in posa per rappresentare le diverse fasi della narrazione e fotografarsi utilizzando i loro cellulari.

Un editing digitale semplicissimo e dall’effetto immediato

A questo punto, utilizzando due app, Prisma e PicSay, i ragazzi avevano il compito di trasformare le foto in vignette. Prisma è un’applicazione per smarphone che permette di “fumettizzare” qualsiasi immagine. L’utilizzatore può scegliere tra opzioni di filtri diversi, alcune dalla resa grafica davvero efficace. PicSay invece permettere di aggiungere anche fumetti per dare voce ai personaggi (al momento in cui scrivo Prisma dovrebbe essere disponibile per Android e iOS mentre PicSay solo per Android, ma se ne trovano altre simili per iOS).
I ragazzi hanno così editato e realizzato il proprio fumetto, spesso stupendosi della bellezza delle immagini prodotte dall’intersezione tra la tecnologia e la loro sensibilità
I ragazzi che lo desideravano potevano utilizzare un’altra app, VideoShow, per creare uno slideshow di presentazione della storia, con la possibilità di aggiungere musica ed effetti sonori.

Momento riflessivo di condivisione

L’attività si è chiusa proiettando i lavori prodotti. In questa fase il mio compito di conduttore è stato quello di provare ad approfondire i contenuti, chiedendo ai ragazzi di dare un nome ai sentimenti dei personaggi, ai loro pensieri, ai motivi dei loro gesti. In un’ottica di mantenere la “copertura” non chiedo di uscire dalla metafora, di raccontare se gli autori ritrovano qualcosa di quanto raccontato nei loro vissuti personali, a meno che ciò non emerga spontaneamente. L’idea è quella di invitarli ad esplorare il proprio mondo interiore rimanendo ancora protetti dalla metafora.

Creare spazi protetti di convivialità ed espressività

Un’attività di questo genere comprende alcuni elementi tipici del teatro quali la narrazione, la relazione “incarnata” tra personaggi, il corpo come veicolo narrativo, può però essere utilizzata con adolescenti che non parteciperebbero mai ad una classica attività teatrale. In particolare ho scelto in diversi casi di proporla ragazzi che provenivano da una situazione di hikikomori (o ne erano a rischio), o che in generale vivevano disagio nell’esporsi all’altro. I 3 diversi livelli di protezione – la maschera, la mediazione della foto, la fumettizzazione – permettono loro di sentirsi sicuri e quindi facilitano il mettersi in gioco.
I ragazzi si muovono, esplorano gli spazi (le foto potevano essere fatte ovunque nell’edificio, e anche nel cortile), cooperano ad un obiettivo comune, interagiscono (e non è raro sentirli ridere insieme).

I ragazzi si espongono, comunicano rimanendo in uno stato di anonimato, ciò che importa non è il nome e il volto di chi manda il messaggio ma il messaggio stesso. Il prodotto artistico è un’opera collettiva che permette a chi l’ha creata di esprimere elementi importanti di sè, pur non svelando la propria identità.

Approcciare in modo attivo le tecnologie

Le applicazioni che sono state utilizzate contengono pubblicità, acquisti “in app” e le loro funzioni sono creativamente piuttosto limitanti: l’utilizzatore, può scegliere solo tra poche opzioni operative. Sono quindi agli antipodi rispetto al software libero, direzione imprescindibile in una prospettiva di Pedagogia Hacker.
Un’attività di questo permette però, a ragazzi che spesso vivono lo smartphone come oggetto di dipendenza, subendone passivamente la presenza, di cominciare ad invertire la rotta, scoprire che la tecnologia può essere utilizzata in modo attivo, creativo, può permettere loro di generare opere originali a partire dalla propria sensibilità e necessità comunicative.
Inoltre l’inversione di direzione è riscontrabile anche sul fronte dell’esposizione di sè. Mentre nei social network è fondamentale promuovere il proprio volto, la propria immagine, qui al contrario la regola è tenersi nascosti. Chi manda il messaggio è un’identità collettiva, un incontro tra persone che hanno lavorato ad un obiettivo comunicativo e artistico comune che trescende le singole individualità.

Le storie

Tra le storie realizzate da i ragazzi dell’Anno Unico c’è quella che racconta di Iris, un adolescente (con poteri magici) che per punizione è stato intrappolato in una foglia che non appassiva mai. Per questo rimase per anni attaccato ad un ramo, era “diventato un silenzioso osservatore del piccolo mondo che lo circondava e trascorreva le sue giornate pensando ad un modo per liberarsi”, era “centenario ma fisicamente appariva come al giorno in cui era stato intrappolato” (cit. dal testo dell’allievo). Iris cercava di chiedere aiuto ma, per colpa dell’incantesimo, era diventato afono, non emetteva alcun suono
Un giorno però Iris incontrò Peggy, un ragazzo molto solo, che aveva il dono di un udito finissimo. Peggy fu l’unico a riuscire a sentire le grida di aiuto di Iris, lo trovò, salì sull’albero e lo liberò. Dal quel momento naque una bellissima amicizia.

E’ facile uscire di metafora e riconoscere nel vissuto di Iris quello di tanti adolescenti che abbiamo incontrato. Ritengo inoltre che abbia una grande carica poetica, esaltata dalla realizzazione per immagini che pubblico di seguito:

Nella seconda storia che vorrei presentare i contenuti sono invece meno rassicuranti, come accade spesso quando i ragazzi sono liberi di inventare senza l’intromissione dell’adulto. Ad una prima lettura potrà sembrare una storiella banale, ma anche qui possiamo trovare temi che caratterizzano il vissuto degli adolescenti: la fiducia, il tradimento di una persona cara, la rabbia.

La catarsi

Un lavoro di questo genere può attivare un processo di catarsi: il ragazzo, mettendo in scena l’assassinio di colui che lo ha tradito, “scarica” le tensioni negative, prendendo distanza dall’evento traumatico e provando una sensazione di liberazione; la vendetta viene agita nel mondo della rappresentazione scenica (senza conseguenze per la vittima!) ma permettendo al protagonista di esternare e dare forma alla propria sofferenza e rabbia.
L’opportunità, in una fase successiva, di riguardare e commentare il prodotto finito (assistendo alla proiezione della storia realizzata) favorisce ulteriormente la rielaborazione dei vissuti. Si tratta di un processo che ha affinità con l’effetto di “purificazione dalle passioni” che Aristotele attribuiva alla tragedia greca e, in tempi più recenti, che Moreno indica come elemento importante della terapia psicodrammatica.
Ragazzi che sono stati vittima di bullismo o di abbandono hanno potuto rientrare in contatto con il proprio vissuto negativo generando il bello, prendendosi cura di sè e avviando piccole (o grandi) trasformazioni.

La sfida di proporre la stessa attività ad un gruppo di ragazzi più “street”…

Ho provato a proporre questo tipo di lavoro anche alla Crew, il gruppo dell’Anno Unico più “street”, insofferenti ai setting maggiormente strutturati, spesso provenienti da contesti familiari e sociali difficili.
I ragazzi si sono divertiti molto, hanno giocato con le maschere, ne hanno provate diverse a testa ma si è creato un clima di confusione tale che i gruppi (un quartetto e due coppie) non sono riusciti a creare alcuna storia. Sono nate alcune belle immagini, che posto qui sotto, tutte molto violente ed evocative, ma anche quando le abbiamo riviste insieme non siamo riusciti a parlarne, i ragazzi erano distratti, le voci si accavallavano, quando qualcuno provava ad intervenire con argomenti pertinenti gli altri lo interrompevano con battute. In quel momento mi sono fatto molte domande: avrei dovuto dare un consegna differente? Non avrei dovuto proporre questo lavoro ad un gruppo di ragazzi con queste caratteristiche?

Lo spettro

Ad un certo punto però qualcosa succede… proiettata sul muro compare l’immagine qui sotto. Non mi ricordavo nemmeno di averla scattata io quella foto. Era un ritratto di gruppo che alcuni ragazzi mi avevano chiesto per ricordare quel momento:

Luca per primo notò la persona sulla destra, separata dagli altri. Aveva una maschera a specchio, un volto spettrale senza occhi, naso, bocca, solo il riflesso del mondo circostante
Luca si chiese ad alta voce chi fosse quello spettro, come fosse finito lì.
Da quella domanda semplice il clima (magicamente..) cambiò:
Hedi, acuto tirocinante, allargò al gruppo la domanda del compagno, invitando ognuno a proporre la propria teoria. I ragazzi si ascoltavano reciprocamente e rispettavano i turni di parola: “E’ uno spettro solitario”. “E’ triste, non ha amici, è venuto a ricordare che la felicità un giorno finirà”, “E’ una persona che è stata esclusa dal gruppo”… In poco tempo in quell’aula si sono materializzate e condivise alcune tra le paure più forti di questi ragazzi, paure “spettrali” in quanto indicibili, su cui si è potuto aprire un breve ma interessante e intenso spiraglio di riflessione.
Ritengo che questo quarto d’ora abbia dato senso all’intera attività, un piccolo fiore nel caos che in seguito, in sede di colloqui individuali, avrò modo di riprendere in modo più approfondito e generativo con alcuni dei ragazzi presenti.

Autoprodurre le maschere. Il lavoro con un gruppo di ragazzi disabili

Quelle che seguono sono alcune immagini in cui le maschere sono state costruite con il cartone, a testimonianza che non è vincolante possedere un propria collezione. Il lavoro è stato fatto da una collega con un gruppo di ragazzi disabili, all’interno di una lezione di inglese.

Sperimentazione al corso di formazione formatori “Alieni”

Durante il percorso Alieni, strumenti e metodi per il lavoro con i nuovi adolescenti nel seminario dedicato alla cultura nerd e ai ragazzi più isolati, spesso è capitato di proporre questo tipo di attività ai partecipanti (educatori, psicologi, formatori), che si sono sempre prodigati creando immagini e storie molto interessanti.. Ecco qualche loro immagine per concludere.
Questo seminario si svolge all’UESM Casa dei Giochi di Milano, patria nerd di ogni età. Le ultime due foto sono scattate nel suggestivo dungeon per LARP ad imbientazione dracula che si trova sotto l’edificio..

Alieni – Autodifesa digitale

RIFLESSIONI E STRUMENTI EDUCATIVI
PER UN’ECOLOGIA DEL DIGITALE
venerdì 25 e sabato 26 gennaio

RIFLESSIONI E STRUMENTI EDUCATIVI
PER UN’ECOLOGIA DEL DIGITALE

venerdì 25 e sabato 26 gennaio
si terrà il secondo modulo del percorso ALIENI promosso da  METODI.
il tema riguarderà il rapporto tra gli adolescenti e le tecnologie digitali
La conduzione affidata al gruppo C.I.R.C.E. (Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche), che negli ultimi anni ha sviluppato un approccio formativo originale – esperienziale e ludico – per il lavoro di coscientizzazione su questi temi.

presentazione:

Il massiccio utilizzo di strumenti digitali è un tratto caratterizzante gli adolescenti.
Ognuno possiede i propri dispositivi personali attraverso i quali può “evadere” in qualsiasi momento dal luogo dell’attività educativa e allo stesso tempo portarvi dentro il proprio mondo vitale; sono oggetti di relazione, costruzione di esperienze e realtà impensabili fino a pochi anni fa.
Si è venuto a creare pertanto un contesto in cui non mancano le situazioni problematiche: cyberbullismo, accesso a contenuti pornografici e/o violenti, violazione della privacy, dipendenza, alienazione.

Le parole oggi accattivanti come “profilazione”, “personalizzazione”, “fidelizzazione digitale”, “gamification” costituiscono un ambiente che conduce alla riduzione dell’autonomia personale e del senso critico.

Lo scopo del corso è quello di accompagnare insegnanti ed educatori ad approfondire e riflettere su queste tematiche e su come progettare e condurre attività finalizzate alla presa di coscienza. La prospettiva da cui ci si muove non è tecnofobica, ma volta a trovare una dimensione ecologica di relazione con le macchine, con attitudine creativa ed emancipante.

Attraverso momenti di lavoro di gruppo e attivazioni esperienziali si progetteranno e sperimenteranno strumenti didattici volti a sostenere lo sviluppo di un rapporto consapevole e critico con gli strumenti digitali.
Si proporranno attività ludiche per generare consapevolezza intorno ai propri bisogni e desideri tecnologici, per sviluppare comportamenti virtuosi che riducano il potere pervasivo degli strumenti digitali, per esplorare criticamente il mondo che si cela “dietro lo schermo”.

per contatti e iscrizioni

www.retemetodi.it

vi aspettiamo!

Manifesto della pedagogia hip-hop – spoken word version

Qualche tempo fa ho scritto un articolo per Animazione Sociale (lo trovate qui) in cui raccontavo come le discipline artistiche dell’hip-hop non solo possono essere uno strumento educativo (vedi qui) ma, allargando lo sguardo, posso indicare un’attitudine, pedagogica ed esistenziale, per r-esistere in questi tempi inquieti.
In quell’articolo avevo provato a spiegarlo in modo analitico, evidenziando 9 “lezioni” che potevano formare un ipotetico “Manifesto della pedagogia hip-hop”.
Quella che segue è invece la versione “poetry slam” di quel testo.

Con la declamazione di questo pezzo abbiamo spesso chiuso la performance “Crescere hip-hop live” (eccola qui). Buona Lettura.

E’ ormai chiaramente smascherata la truffa
che un pezzo di carta
aprirà le porte del nostro futuro
che se studiamo
sudiamo
accumuliamo titoli
avremo assicurato il dopo
ci proteggeremo dal fuoco
dell’incertezza

è ormai chiaro che qualsiasi progetto lineare
consequenziale
non vale
il tempo impiegato per concepirlo

a noi
non è rimasto che imparare per imparare
per sentirci funzionare
maratoneti di sbattimenti enormi
solo per la vertigine di fare esperienza di noi e del mondo
per l’assenza
la noia
per gioco
per l’urgenza di mettere in ordine il troppo
per ricompensa intrinseca, pulsione libidica

non ci è rimasta che fatica gratuita
per il vezzo di essere di più
il capriccio di rimanere liberi
per l’arroganza di sentirci vivi
per perdita di tempo
per il conforto del senso

In questa tempesta di flussi
in questo continuo accelerare
richiesta di performare
ritaglieremo aree confinate
zone temporaneamente incantate
autoproclameremo eterotopie
spazi dove valgono magie
territori di potenzialità retti da regole altre
ergeremo bordi per non straripare e cornici d’incontro autentico

godendo dell’io ci scopriremo noi
saremo crew, posse, tribù
reti di fiducia, affinità, affettività
piccoli gruppi d’apprendimento tra pari
famiglie non convenzionali
banchetti conviviali

Si è scoperto
che le grandi narrazioni non avevano chiusure all’altezza
finali altrettanto belli
il filo del discorso delle logiche biografiche è in brandelli
ritesseremo trama
il suono del racconto di noi sarà il nostro filo di Arianna
principio d’ordine nel caos
saremo metrica
intrecceremo parole afferrando il ritmo trovando equilibrio per non cadere

saremo griot
cantastorie
la parola sarà viaggio, messaggio, massaggio
protezione, barriera, dimora, cura
giardinieri di miti in questa radura

Sciami di scorie mediatiche ci si sbriciolano addosso
labili incontrollabili flussi di stimoli
tutto
si è riusciti a spezzettare

dichiariamo allora che ognuno di questi frammenti
sia materia del nostro gioco
mattoncini colorati per architetti bambini
saremo dj
mixeremo
ri-mixeremo queste rovine creando nuova musica meticcia
per coreografie che superano le vostre categorie
artigiani della ricombinazione
apprenderemo facendo collage
cut-up,
mash-up
raffineremo l’arte dell’ibrido e del sincretico

saremo migranti che imparano a tenere insieme mondi campionando
tagliando
incollando
sfumando una nell’altra le esperienze
sbloccando il loop dell’eterno presente con un’entrata a strappo
in questo troppo saràsolo questione
di una buona selezione

Dichiariamo
che come abbiamo
trasformato un giradischi in uno strumento musicale
utilizzeremo qualsiasi oggetto tecnologico arrogandoci la libertà di violarne i protocolli d’uso esplorandone le potenzialità
piegandolo alle nostre necessità
al di là
dello scopo per cui è stato concepito
superando la passività indotta
con la fotta
radicale di un bambino

L’unica tecnologia che amiamo è quella dirottata e riappropriata
l’unica tecnologia che amiamo l’abbiamo già smontata
artisti del riciclo
sarti degli scampoli
reality samplers
sempre con disciplina
rovisteremo nelle discariche a estrarre florida materia prima
d.i.y.
in pratica artigiani,
bottegai
lavoro lento di riappropriazione con cura e criterio
micro-economie del desiderio

E torneremo corpo
che avete piegato con quei banchi di prigione frontale
dimenticato davanti ad uno schermo di coscienza sbragata
appiattito in un’immagine photoshoppata di perfezione

ritroveremo un senso ripartendo dai sensi
riconquisteremo lo spazio modellando il movimento virtuosi della bellezza del gesto
saremo danza tra le macerie di ferite e possibilità
tensione mente-corpo in forma-flusso

saremo l’aria che ci attraversa
voce-respiro
saremo vibrazione
meditazione accompagnata da ritmi nuovi
atti gratuiti di bellezza
silenzio e acrobazie
sciamani
d’inattese ecologie