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Il lutto e l’essenziale – Inventare formazione con adolescenti distanti, parte 1

Al termine dell’ultima riunione d’equipe prima dell’irrigidirsi delle norme di distanziamento sociale, ero un po’ scoraggiato; pur essendoci venuta qualche bella idea, temevo che sarebbe stato davvero difficile rientrare in contatto con i ragazzi.

Le domande erano tante:

– Come si fa apprendimento esperienziale a distanza? E’ possibile?
– E’ possibile farlo con ragazzi che hanno lasciato la scuola, ognuno con situazioni di crisi personale, qualcuno a rischio ritiro sociale, molti poco motivati?
– Come coinvolgere adolescenti in molti casi provenienti da famiglie non in grado di supportarli, in difficoltà economica che spesso non possiedono altro strumento digitale oltre il proprio smartphone?
– E possibile conservare in qualche modo il setting, lo “spazio magico” dell’Anno Unico, che è così importante per il successo del nostro lavoro?
…perderemo tutti i ragazzi?

opera d’arte fotografica dal titolo: “perdere i ragazzi”

Era passata una settima da quando non li vedevamo e mi sembrava già di aver perso la sintonia con loro, che quel delicato filo che faticosamente si era costruito in questi mesi si sarebbe sfibrato nel lavoro a distanza. Li avevamo contattati via messaggio, chiedendogli come stavano e, come prima semplice consegna, gli avevamo chiesto di mandarci foto di quegli oggetti che li stavano aiutando a vivere meglio queste giornate, ma le risposte erano state davvero poche.

Ciò che temevo era che l’ ‘aura’ speciale dell’Anno Unico, la sua caratteristica di essere luogo “altro” di esperienze intense, si sarebbe irrimediabilmente persa. Mi chiedevo poi quali fossero le aspettative delle famiglie, e avevo grossi dubbi sulla tenuta economica del corso.

In parallelo, al di fuori del lavoro, iniziavo ad essere preoccupato per la situazione sanitaria nel paese e soprattutto qui in Lombardia. Se i primi giorni di sosta forzata mi erano parsi un momento perfetto per riprendere fiato da un’annata impegnativa su tutti i fronti, quasi una piccola vacanza, dopo pochi giorni ero meno già meno sereno. Quando ancora girava lo slogan #milanononsiferma, mia sorella, medico di base, mi raccontava la situazione negli ospedali, la sentivo molto tesa. Pensavo a lei, ai miei genitori anziani, a cosa sarebbe accaduto alla mia bimba piccola se io o la mia compagna fossimo stati ricoverati. Preoccupazioni professionali e familiari si intrecciavano in un mix destabilizzante.

stencil prodotto all’Anno Unico

Regola n 1: Diffidare delle soluzioni tecniche e stare con il problema

La fase del “lutto” per me è durata quasi due settimane. Mi sentivo impotente. In rete si moltiplicavano le lodi alle scuole di “eccellenza” che dichiaravano di aver riprodotto fedelmente in digitale il loro lavoro in presenza, che continuavano a correre, o quantomeno ci provavano. Tutto ciò un pò mi infastidiva: nel mondo (e nelle vite dei ragazzi) stava succedendo qualcosa di enorme, e la scuola sembrava vi si confrontasse solo da un punto di vista tecnico, nell’illusione che spostando online le lezioni la crescita e la formazione dei più giovani fosse salva (ovviamente non mancavano voci fuori dal coro di singoli insegnanti e di qualche pedagogista, ma sicuramente minoritarie).

All’Anno Unico per fortuna non abbiamo avuto molta scelta: il problema non era aggirabile in nessun modo, visto che noi non avevamo programmi da terminare, vista la fragilità dei nostri ragazzi; eravamo obbligati a stare nell’inquietudine, e accogliere le fragilità, nostre prima di tutto.

Ricordo una lunga telefonata con la collega Francesca che ha accolto la mia tensione. Rispetto lo stallo con i ragazzi mi ha detto “Aspettiamo, vediamo se ci rispondono, ascoltiamoli e facciamo quello che possiamo”.

Decidere consapevolmente di rimanere per un po’ in quel disagio, provare a sentirlo in tutta la sua forza senza l’urgenza di risolverlo è stato il primo passo importante.

Dovevo accettare che nostro lavoro non sarebbe stato più, per un lungo tempo, quello che era prima, avremmo perso tanti suoi componenti fondamentali che non potevano essere sostituiti.

Francesca mi aveva riportato al consiglio di Donna Haraway di “stare in contatto con il problema”, accettarlo, non attendere soluzioni tecniche miracolose, ma allo stesso tempo continuare ad avere fiducia, “prepararsi a sbagliare ma riuscendo di tanto in tanto a scovare qualcosa che funziona, qualcosa di congruo e magari bellissimo che prima non c’era”.
Per me era il punto di partenza di cui avevo bisogno.

Regola n. 2: se vuoi essere generativo smetti di tutelare te stesso

Un secondo passaggio importante è stato quello di concentrarsi sui ragazzi. Ciò che mi ha fatto uscire dallo stallo iniziale è stato proprio, anche con un po’ di azzardo, smettere di preoccuparmi per un attimo della tenuta del “sistema” e di ripartire cercando solo una sintonia con loro; passare dal chiedersi “noi di cosa abbiamo bisogno per creare un Anno Unico a distanza?” a – più semplicemente – “di cosa hanno bisogno i nostri allievi in questo momento? Quali urgenze?”.

Ero concentrato a garantire la continuità del sistema, a non abbandonare la metodologia fieramente sperimentata negli anni, un po’ per sana responsabilità da coordinatore, un po’ per orgoglio, piuttosto che cercare di ascoltarli, o meglio, di sentirli. Allentare la tutela di sé stessi (e delle realtà che abbiamo costruito) per volgersi verso l’altro (soprattutto quando ci si sente minacciati) non è mai facile, ma resta fondamentale per attivare movimenti generativi.

Regola n. 3: Nelle situazioni di emergenza porta con te solo l’essenziale

Noi formatori non avevamo idea di come rispondere alla domanda dei ragazzi “cosa dobbiamo fare per resistere a questa situazione, abitarla, viverla senza esserne sopraffatti e magari apprendere?”, in fondo era la stessa questione che ponevamo a noi stessi (una domanda di apprendimento autentica quindi…). Però qualche buona pratica in generale per abitare il caos e la destabilizzazione forse l’avevamo; in fondo l’Anno Unico è sempre stato uno spazio di ricerca sul tema della crisi: personale, sociale, storica; un luogo di sperimentazione di pratiche per “coltivare fiori nel caos”.

Ho sempre sostenuto provocatoriamente (ma neanche troppo) che il lavoro didattico ed educativo con le nuove generazioni oggi deve avere come obiettivo primario lo sviluppo di competenze per abitare il caos.
Quello che avevamo di fronte ora era ‘semplicemente’ un salto di qualità in questo caos.

Nelle situazioni di emergenza si porta con sè però solo l’essenziale. Abbiamo provato a prendere quanto di meglio avevamo imparato in questi anni ma spogliandolo di ogni orpello, tecnica, metodologia; cercato il nucleo, per poi ri-declinarlo calandolo nella nuova situazione. Serviva un esercizio di essenzialità: abbiamo ripreso pratiche, riflessioni, esperienze, letteratura che ci hanno nutrito in questi anni e ne abbiamo distillato una bussola semplice, ma che si è rivelata fondamentale per guidare la navigazione nelle settimane a venire.

Tre risorse per affrontare il caos

Il risultato lo si può sintetizzare così:

E’ possibile abitare il caos, affrontarlo in modo generativo, se:

1 – Non si è soli. Si hanno come riferimento persone di cui ci si fida, legami che si basano sulla stima, l’amicizia, la cura reciproca

2 – Si possiedono strumenti per dare forma e senso ai vissuti caotici, difficili da far rientrare in narrazioni precostituite, per accogliere le emozioni, rallentare la velocità degli eventi, costruire pensiero critico.

3 – Si instaura un ritmo nella propria quotidianità, si mantiene qualche ritualità, struttura a cui aggrapparsi. Si concepisce il presente non come tempo sospeso di attesa di qualcos’altro ma come spazio in cui vale la pena attivarsi, sentirsi ancora vivi e sperimentarsi.

Questi sono i tre punti che ci avrebbero orientati. La sfida ora stava nel capire come potevamo muoverci a distanza per sorreggere i ragazzi in questo senso.

Ci abbiamo messo più di un mese a costruire, partendo da quanto detto, un intervento strutturato che potesse funzionare. Un tempo di tentativi, riflessioni, errori, entusiasmi. Nei prossimi articoli provo a raccontarlo.

Clicca qui per passare al secondo capitolo, che parla di come provare ad “esserci” a non farli sentire soli e costruire un setting il più possibile accogliente nel mondo digitale

Mamma, papà, ora vi spacchiamo il telefono! …e se il problema fossero gli adulti? un racconto di insurrezione

Attraverso un lavoro di narrazione fantastica i ragazzi riflettono su alcune problematiche legate alla dipendenza da strumenti digitali. Ciò che emerge è tutt’altro che scontato…

All’Anno Unico, durante il percorso di Pedagogia Hacker, abbiamo chiesto di ipotizzare possibili soluzioni agli effetti nocivi degli strumenti digitali.
I ragazzi dovevano scrivere un racconto di fiction in cui si ipotizzassero risposte virtuose, in particolare al problema della dipendenza.

Dovevano immaginare di scrivere lo script di un film (spesso, come sappiamo, per gli adolescenti è più facile creare una narrazione chiedendogli di immaginare che sia la trama di un film o di una serie tv); le soluzioni presentate nel testo potevano essere anche fantastiche, era permesso osare senza censure.

L’idea era provare a superare l’immaginario distopico tipico di narrazioni in stile Black Mirror, volevamo sfidare l’impotenza che questi racconti suscitano permettendoci anche soluzioni assurde, e non necessariamente politicamente corrette.

Questo è il brano che il gruppo, 6 ragazzi poco “scolarizzati” ma molto intelligenti hanno creato, senza nessun suggerimento da parte dell’adulto: 

Un ragazzo nella sua famiglia. È il figlio più piccolo. Si rende conto che si sente solo perché i genitori non parlano: non parlano tra di loro, non parlano con lui. Studia allora un metodo per staccare i genitori dal telefono.

Fa diversi tentativi:
-prima stacca il wi-fi
-poi rompe i telefoni ai genitori (glieli rompe di notte, nei pochi momenti che non li hanno in mano)
-allora gli stacca la sim da telefono e gliela butta via

Questi metodi però non funzionano.
Cerca allora di far sentire i genitori in colpa perché non fanno il loro dovere.
Denuncia l’azienda dei telefoni, cerca delle prove che la colpa per cui i genitori non si parlano è dell’azienda dei telefoni.

Chiama un amico, gli chiede come va, lui gli dice che la situazione a casa sua è simile, allora insieme decidono di creare un gruppo. Si danno un appuntamento in un posto segreto, vanno all’azienda che produce i telefoni, si presentano nell’ufficio del proprietario dell’azienda. Gli dicono: “guarda, i nostri genitori non pensano più a noi”, poi lo mandano affanculo e lo menano. Menano il signore dei telefoni.

Poi se ne vanno e fanno scattare la seconda parte del loro piano.
Tolgono l’elettricità a tutta la città. La gente rimane al buio ed è costretta ad utilizzare le candele.
Le persone senza luce con il passare dei giorni vanno in depressione, iniziano ad esserci diversi suicidi, la gente inizia a protestare, c’è una rivolta perché i cittadini rivogliono l’elettricità.

I ragazzi allora propongono un patto: se vi ridiamo l’elettricità tutti i telefoni devono sparire .

Quarto stato cyborg – Bologna Livello 57

Spunti di riflessione

Sebbene si tratti di un testo che a molti colleghi potrebbe far storcere il naso, scritto da ragazzi piuttosto allergici alla scrittura (e alla lettura, e ai contesti scolastici..), contiene alcune intuizioni ed elementi di saggezza che è bene elencare, che in aula abbiamo in seguito approfondito insieme:

  • I primi responsabili di tutta questa questione non sono gli adolescenti. Il problema sono gli adulti che progettano e guadagnano sul tempo che dedichiamo allo smartphone. Molte delle piattaforme digitali che usiamo quotidianamente sono progettate per generare dipendenza, da team di ingegneri e psicologi “passati al lato oscuro”. Gli adulti inoltre, nel ruolo di utilizzatori, sono dipendenti come e forse più dei ragazzi.
  • Il ruolo, rimosso, dell’economia e del conflitto. La dimensione economica, il capitalismo ha un ruolo importante in questa partita, anche se la maggior parte di “media educators” evita o marginalizza la questione, “E’ colpa vostra che utilizzate male lo strumento”, fanno intendere. I ragazzi nel loro racconto invece hanno messo in evidenza qualcosa di diverso e ci ragguagliano, con linguaggio colorito, che se si desidera il cambiamento bisogna mettere in conto anche un importante livello di conflitto, che non basteranno i ravvedimenti interiori.
  • Sortirne insieme. La dipendenza da strumenti digitali ha una dimensione sociale e politica, non può allora essere affrontata dall’individuo da solo. Bisogna allearsi, come i ragazzi nella storia, “sortirne insieme”, come ripeteva don Milani.

Come spesso accade i ragazzi hanno detto le cose con molta semplicità, ma in modo molto efficace, elementi che la media education e in generale tutta l’educazione al digitale in generale tace o mette in secondo piano. Sta a noi saper ascoltare…


Billie Eilish in aula: lavorare con la metafora

Riflettere su se stessi e sul mondo a partire da un video musicale fortemente metaforico

L’idea in pillole:
Si chiede ai ragazzi di dare un’interpretazione personale ad elementi metaforici presenti in un videoclip musicale. In questo modo possono essere condivisi e rielaborati sguardi su se stessi e sul mondo.

Alcuni video musicali hanno una forte carica metaforica. Il formatore può sfruttare questa caratteristica per attivare processi riflessivi, chiedendo al gruppo di ipotizzare possibili interpretazioni del “significato nascosto”.
Il video può essere suggerito dai ragazzi (in una situazione di lavoro simile a questa) oppure scelto a priori dal conduttore come nel caso che segue, perchè ritenuto funzionale per approfondire temi rilevanti per il percorso educativo.

Gli adolescenti, talvolta, ascoltano (e producono) musica di qualità

Ho proposto ai ragazzi dell’Anno Unico di lavorare sul video “When the party is over” della giovanissima cantante americana Billie Eilish (di grande successo a livello globale tra gli adolescenti). Il suo Electro-pop o Gothic-pop è stato apprezzato anche dalla critica più esigente; inoltre i suoi video sono spesso piccole opere d’arte, realizzati con cura e sempre veicolo di interrogativi e significati non scontati (…e sempre parecchio inquietanti).

Scegliere su quali elementi della metafora andare a lavorare

Quando si vuole utilizzare in contesti di apprendimento un video di questo genere, il formatore può chiedere ai partecipanti di “svelare” il significato nascosto dietro ad ogni singolo elemento, a partire dalla propria sensibilità. Questo tipo di attivazione può facilitare la produzione di riflessioni inedite e generative

In questo caso ho chiesto ai ragazzi di annotarsi cosa rappresentavano secondo loro:

– la scena iniziale: i colori, la stanza, la protagonista
– il liquido nero nel bicchiere
– le lacrime della protagonista e il finale

La condivisione

Terminata la visione del video apriamo il momento di condivisione. Quasi nessuno aveva scritto nulla ma, dagli interventi che seguirono, mi resi conto che avevano raccolto la sfida.

Luca: macchie sul bianco della perfezione

Luca interviene per primo. Ci dice che secondo lui la scena iniziale rappresenta la purezza, ma anche la solitudine. Il liquido nero è il dolore che la protagonista manda giù nel tempo. Dopo un pò è satura, non ne può più e il mondo puro in cui viveva si sporca.
Dopo aver detto queste parole non ha voglia di commentare oltre, e io non gli chiedo altro.
Dentro di me però penso quanto in questa visione ci fossero temi importanti dell’esperienza di Luca, ma anche di tanti adolescenti di oggi. Ci troviamo sempre più spesso ad avere a che fare con ragazzi cresciuti con genitori impegnati ad essere perfetti nel loro ruolo, a non far mancare nulla ai loro pargoli: dialogo, esperienze formative di ogni sorta, protezione dalla sofferenza e dalla frustrazione. In queste situazioni è facile che i figli interiorizzino a loro volta l’imperativo di “dover essere perfetti” e, talvolta, la sensazione di esserlo. Arrivati all’adolescenza però lo shock è forte: i ragazzi si rendono conto che sono vulnerabili, che stare al passo con le aspettative dei genitori diventa impossibile, che il mondo là fuori è pieno di insidie, precarietà, che il successo che sognavano da bambini è cosa per pochi. Tutto questo genera ansia e vissuti depressivi.
Se si è abituati alla perfezione, a rappresentarsi come bianco candido, qualsiasi macchia è insopportabile, impossibile da reggere.

Matteo: lo sporco diventa esperienza

Matteo invece ritiene che le scene iniziali possano rappresentare la forza e la fragilità insieme: il bianco è la fragilità, mentre i capelli azzurri di Billie rappresentano la forza, la determinazione con cui la protagonista vuole imporre il suo essere unica. Il liquido che la ragazza beve sono invece gli ostacoli che deve affrontare, le fatiche della vita, i problemi. Il finale rappresenta i cedimenti della ragazza: non riesce più a reggere tutta quella fatica e lascia andare, subisce molte sconfitte. Matteo sottolinea però che la protagonista non crolla mai definitivamente, lo si può notare dal fatto che rimane seduta fino alla fine del video, capiamo così che è riuscita ad attraversare questi momenti, anzi è diventata più forte e soprattutto più saggia (lo si intende dai vestiti sporchi, vissuti).
Il contributo di Matteo sembra andare a dialogare in qualche modo quello di Luca. In questo caso la non purezza diventa un valore, e la sofferenza può essere accettata e attraversata. Lo sporco è simbolo di maturità e di cammino compiuto.

Boris: la difficoltà i diventare grandi

Boris interviene per ultimo e, con il suo solito fare da “saputo”, comunica al gruppo – e a me – che il tema del video non è l’adolescenza, ma il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Ci dice che il liquido nero rappresenta quando vai a vivere da solo, e devi mantenerti tu, quando l’ingresso nel mondo del lavoro porta a vivere “la stessa fatica e la stessa merda”, quando la vita va in loop. Si diventa allora più cinici e “ci si chiude all’amore”.
Boris ci racconta che quando cresci, e inizi ad avere un pò di indipendenza, “ti senti il boss”, “però poi inizi a fare cazzate, butti via i soldi, ti penti e impazzisci”. Dice che il liquido nero potrebbe essere anche lo stare male dovuto alla delusione di sè.
Non a caso Boris è proprio in un situazione di vita simile, nei prossimi mesi gli sarà richiesto di fare un importante salto di autonomia, dovrà, non per sua scelta, andare a vivere da solo, e i servizi sociali non potranno aiutarlo tanto come hanno fatto fino ad ora, dato il compimento della maggiore età.
Attraverso questo discorso, fatto con tono di chi si sente un pò più grande e un passo avanti nel percorso della vita, Boris ha portato al gruppo i propri fantasmi, le proprie paure, gli ha dato una forma e le ha condivise come forse mai prima in un contesto simile. La potenza della metafora, e la protezione data dalla richiesta di non parlare di se ma “della protagonista del video”, lo hanno messo in condizione per poter formulare e comunicare quella riflessione, in un atto di grande forza e coraggio.

il ruolo del gruppo

Come sempre il gruppo ha avuto un ruolo fondamentale: accoglie, contiene, in un gioco di risonanze aiuta ad integrare i contenuti più forti.

Fridays for present. Uno sguardo educativo alla resistenza dei più giovani all’antropocene

7 ragioni per cui, anche se ci estingueremo, questo movimento sarà stato prezioso (per chi ne avrà fatto parte)

Che movimento è questo? Sono ragazzi superficiali, incompetenti? Illusi?
E Greta chi è? E’ manovrata dalla madre in cerca di fama? Da Soros? Dalle aziende che hanno bisogno di fare greenwashing? Cosa diciamo di tutte le contraddizioni di cui è imbevuta questa questione?
Di seguito qualche riflessione, a partire dallo sguardo di una persona che lavora quotidianamente con gli adolescenti.
Spoilero la conclusione: ritengo stia accadendo qualcosa di prezioso, indipendentemente dal fatto che durerà o si consumerà rapidamente, che ci salveremo o ci estingueremo. Forse è importante sottolineare che tutto ciò ha un valore prima che per il futuro, per il presente dei giovanissimi che lo stanno vivendo e alimentando, per almeno 7 ragioni:

1 La consapevolezza si costruisce camminando

“Non possiamo pensare che ragazzi di 16 anni, fino a ieri lontani dalla politica, spesso disinteressati al bene comune, di punto in bianco diventino persone politicamente mature, che facciano discorsi profondi e articolati sui temi sociali, consapevoli della complessità delle questioni, e magari con qualche bello slogan che ricordi “i gloriosi anni andati delle nostre lotte”. Probabilmente se il movimento continuerà le persone cresceranno, l’analisi e la narrazione si farà più complessa (anzi si molteplicheranno le narrazioni), si svilupperanno nuove pratiche e proposte. Probabilmente si alzerà il livello di conflittualità, e la critica radicale al sistema economico e agli attuali stili di vita non potrà passare in secondo piano. La contestazione, per chi ne fa un percorso, è occasione di ricerca, di crescita e apprendimento. “Camminare domandando”, diceva qualcuno.

2 Finalmente un pò di sano non-realismo

Contraddicendo apparentemente quanto appena scritto, uno dei valori di questo movimento è una buona dose di non-realismo e caparbietà (tipica dei bambini..) che lo ha acceso. E’ nato lontano da (e aggiungerei contro) quel razionalismo maschile, adulto, che tanto si pone in cattedra a criticare; è andando contro questa formula di “anthropos” che si è riaperta la possibilità di azione. Forse sta accadendo qualcosa di molto importante che, insieme ad altri movimenti (black lives matters, Lgbtq…), sta cercando di perturbare l’egemonia del paradigma antropocentrico-illuminista-occidentale che ci permea, e che sta mostrando di essere arrivato ad un punto non più generativo.

3 Il bene comune torna nel vocabolario degli adolescenti

Questi sono ragazzi a cui è stato insegnato che ci si salva da soli, schiacciando gli altri. Che bisogna pensare a sè, a competere nell’hunger game della precarietà. Chiunque abbia a che fare con loro quotidianamente sente quanto questa narrazione li abbia pervasi. E ora invece alcuni di loro si stanno incontrando, organizzando, dedicando del loro tempo per qualcosa che li trascende. Anche solo autoconvocandosi il pomeriggio per dipingere uno striscione stanno assaporando un sentimento di comunità che molti non sapevano nemmeno esistesse. Sta succedendo qualcosa di impensabile fino a pochi mesi fa, questo quantomeno si registra nel piccolo osservatorio del CFP di provincia dove lavoro.

4 Un sano scontro generazionale, in cui mettere tutto sul conto

Le istanze ambientaliste sono un’occasione per questi ragazzi per aprire (finalmente) una dialettica generazionale, per tematizzare un risentimento che va oltre quelle specifiche questioni, che vediamo oggi troppo spesso soffocato. Si concretizzano tensioni nei confronti di adulti che hanno radici nel disagio di chi è stato cresciuto iperprotetto, a cui è stato imposto l’imperativo del successo e del godimento nel consumo, causa sempre più di ansia e frustrazione. Lo striscione “tra cinquant’anni voi non ci sarete ma noi si” è forte, ma fondamentale nella sua dirompenza, sia da un punto di vista pedagogico che sociale.

5 Depurarsi dal mercato

Si tratta di un’occasione per questi giovanissimi per alleggerisi dai bisogni indotti dal mercato. Possiamo sorridere vedendoli andare a scuola portando la borraccia invece che comprarsi le bottigliette alla macchinette, pensando “così credono di salvare il mondo”.
A me è capitato più di una volta sentire adolescenti imprecare perchè avevano sete e la macchinetta aveva finito le bottigliette di plastica. E darmi del pazzo quando gli ricordavo che a fianco c’era un bagno con un lavandino; questo per molti è il punto di partenza. Azioni come riempire la propria borraccia con l’acqua corrente, non mangiare carne, ridurre i viaggi in aereo, prima che per salvare il mondo rappresentano, istintivamente, il bisogno di depurarsi dal grasso di un troppo che li ha saturati, di ritrovare lentezza dove tutto è sempre andato troppo veloce per poter essere rielaborato. Una generazione per cui mcdonald non è il simbolo della lotta alla globalizzazione liberista, come poteva essere per la mia, ma più personalmente rappresenta il vissuto di una città fatta di non-luoghi, dell’ingozzarsi di schifezze per uccidere la noia di un mondo che ha perso il senso.

6 Si può essere vivi, nonostante il mercato, nonostante le contraddizioni

Molte aziende hanno capito che abbracciare questo movimento può essergli utile per lanciare i propri prodotti green e alzare i propri fatturati. Lo sappiamo. Il mercato oggi è ovunque, non è possibile starne fuori, permea qualsiasi cosa, anche le situazioni più radicali. Si tratta di una delle sofferenze più grandi per chi cresce in quest’epoca (pensiamo ad esempio che oggi non esiste più genere musicale, cultura giovanile, che non siano fagocitati dal business già al loro comparire).
E Greta indubbiamente è anche un fenomeno mediatico, forse anche spinta da abili social media managers.
Ciò non vuol dire però che all’interno di questo territorio sporco, senza zone franche, non possa nascere qualcosa di vivo, non possano aprirsi spiragli di resistenza. Bisogna però accettare anche le contraddizioni, le enormi difficoltà, gli scivoloni.
Fare i puristi, cercare qualcosa libero dai tentacoli del mercato, nell’epoca in cui il mercato fagocita qualsiasi cosa, vuol dire rimanere immobili e sterili.

Segni di vita nella depressione

Alcuni giornali commentavano l’intervento di Greta Thumberg all’ONU come una voce pessimista che porta un approccio castrofico laddove serve ottimismo e speranza nel futuro.
Un altro lato positivo di questo movimento è forse proprio questo. Aiutarci a guardare in faccia la catastrofe, esplicitare la tragedia, rigettare un finto sguardo positivo verso il futuro che la società felicista ci impone (lasciandoci con la depressione ben nascosta ma che spegne dentro).
E allora è meglio uno sguardo negativo e incazzato, ma pieno di vita.

Per chiudere copio e incollo una poesia, trovata in rete, l’autore è Giordano Ruini. Spiega molto bene quello ho cercato di dire

Davvero avete bisogno
di sapere se il clima è impazzito
se quella ragazzina è manovrata
se è vero che i ghiacciai si sciolgono
se l’Amazzonia brucia
se la plastica soffoca gli oceani
se il pianeta collasserà nel 2050
se le emissioni di Co2 sono sopra il livello di guardia?

A me basta
osservare la fila di auto al mattino sulla statale
per finire almeno otto ore al giorno in contesti tossici
costretti in ansie e doveri
vedervi fare quello che anestetizza l’anima
e non quello che vi libera
per tornare la sera cinici ingrigiti

A me basta vedere i vicini di casa
che sono più irritati dalle foglie della quercia in autunno
che dal rumore e dalla polvere dei camion

A me basta
sapere che vi sembra normale
lasciarvi imbruttire da un’altra banalità
incazzarvi per un commentino sui social
ma ignorare il continuo sperpero della vostra vita
e non cantare mai

A me basta
vedere quel ragazzino che si chiude in casa per sempre
perché non ne vuole sapere di questa infelicità
di questa burocratizzazione dell’umano
di questi adulti così marci che non comprendono
che la vera emergenza
è non saper riconoscere la meraviglia di un fiore

A me basta
vedere un esercito di depressi che bramano psicofarmaci e ansiolitici
riempiendo le tasche velenose di chi gli sta rubando la vita
e sentire dentro di me che questa depressione
è una ovvia risposta del corpo a tutto quello che non va e a cui non dico di no

A me basta
essere allergico al polline e far fatica a respirare
per l’aria tumorale di questa pianura
che cresce come il vostro Pil

A me basta
vedere i tuoi parenti che muoiono di cancro
per Augusta, per l’Ilva, per l’acqua contaminata, per il cibo guastato dal profitto
e sentire gli schiavi degli schiavi che dicono
“meglio morire di lavoro che di fame”

A me basta vedere
quanti soldi buttate per la ricerca contro le malattie
quando è questo costringersi alla falsità
che ci fa esplodere il pancreas
distrugge la cistifellea e annerisce il colon
e che le cellule diventano tumorali
perché la bellezza è oscurata e la gioia non trova spazio

Avete ancora bisogno di ascoltare i dibattiti e ragionare sui dati
per sapere che la casa è in fiamme
che l’inquinamento fuori è identico a quello dentro l’umano
che tu per primo stai bruciando

e che basta
la tua attenzione gentile
che ti fermi adesso, che respiri, che ti vedi
che basta
il tuo cuore aperto e vulnerabile
per curare tutto il mondo?

A me basta.

(Giordano Ruini)


Come imparano gli hacker?

Dalla comunità hacker un modello di apprendimento curioso, divertito, personalizzato e allo stesso tempo collettivo, in cui la conoscenza è un bene comune.

C.I.R.C.E., con la definizione di Pedagogia Hacker intende evidenziare il valore pedagogico, in un’ottica di pedagogia critica, delle competenze e attitudini che caratterizzavano i primi computer club e gli hackerlab, terreno culturale in cui alcuni di noi hanno mosso i propri primi passi.

Formazione dopo formazione ci siamo resi conto di come questo tipo di approccio, critico e creativo, può essere una base utile per ripensare la formazione all’utilizzo consapevole degli strumenti digitali, e in generale per ispirare modelli didattici e di apprendimento alternativi.

illusttrazione Hackmeeting 2016 – Pisa

Possiamo, generalizzando il concetto di hacker, pensare che un tale approccio pedagogico si fondi su alcuni elementi di base:

– Approccio curioso e problematizzante rispetto al mondo e nello specifico alla tecnologia

L’hacker è un individuo che si pone delle domande, problematizza la realtà intorno a sè. Quando ha individuato un problema che gli sembra interessante inizia a lavorare per cercare di risolverlo. E’ una persona profondamente curiosa, appassionata di tecnologia; il suo primo desiderio di fronte ad un oggetto tecnologico è quello di smontarlo, vedere come funziona, casa c’è dentro. Per lui nessun artefatto è obsoleto perché sa che ogni cosa può essere re-inventata, ri-combinata, ri-adattata ad usi anche molto lontani da quelli per cui è stata creata.

– Apprendimento come piacere

Ciò che muove l’hacker al continuo apprendimento è il piacere stesso di apprendere. Gli hacker programmano con entusiasmo, amano affinare le loro competenze e mettere a frutto la loro intelligenza. Ogni problema diventa una sfida, un’occasione appassionante per mettersi alla prova. Il motivo primario che lo spinge ad apprendere e faticare non è la possibilità presente o futura di cospicui guadagni, è il piacere di superarsi, di creare, il divertimento di scoprire soluzioni funzionali ai problemi percorrendo strade non ancora battute.

Logo del Chaos Computer Club, collettivo tedesco che dagli anni 80 porta avanti i principi dell’hacking

– Apprendimento come frutto di ricerca ed esperienza personale, non inquadrabile in percorsi di studio ufficiali

La formazione degli hacker segue principalmente canali non ufficiali, è un percorso di ricerca personale che parte anzitutto dall’ hands on, il “metterci le mani sopra”.

L’hacker sceglie autonomamente di volta in volta i propri obiettivi di apprendimento e auto-organizza proprio tempo di lavoro-studio non imbrigliato in un sistema di rigidi dispositivi di apprendimento e titoli riconosciuti.

– La dimensione sociale del sapere e la conoscenza come bene comune

Ogni hacker sente il dovere di far circolare ciò che ha imparato. Considera la conoscenza un bene collettivo quindi ritiene fondamentale metterla a disposizione di tutte le persone a cui potrebbe essere utile. La conoscenza è vista come un bene che si può costruire solo collettivamente e non può essere arginata da leggi che la imbriglino.

Questi elementi evidenziano un modello pedagogico ben preciso, per molti versi lontano da quello mainstream. I percorsi di apprendimento sono personalizzati e non basati su programmi standard imposti per tutti, i titoli di studio perdono di significato. Gli hacker non apprendono per aspirazioni di alti guadagni, o per arricchire un curriculum apprezzabile nel sempre più esigente mercato del lavoro. Ciò che muove l’apprendimento è la passione e il riconoscimento da parte della comunità dell’utilità del proprio lavoro e delle proprie scoperte, il desiderio di capire come funziona il mondo per poterlo migliorare. Grande valore ha la dimensione collaborativa e dialogica di apprendimento tra pari.

Un approccio pedagogico controculturale

Si tratta quindi di una prospettiva valoriale, formativa, pedagogica, fortemente in contro-tendenza con l’istituzione scolastica e accademica attuale dove utilitarsimo, trasmissione depositaria dei saperi, programmi rigidi, appiattimento della formazione alle richieste del mercato, copyright, limitazione della dimensione critica, sono gli ingredienti frequenti.

dal mio contributo per il testo di Ippolita “Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale”, Meltemi, 2017
Qui puoi scaricare il capitolo completo

R-esistere hip-hop!

Un MIX evocativo per scoprire il valore pedagogico della cultura nata nel Bronx. Il testo completo della performance R-ESISTERE HIP-HOP di Skrim, Mastino e DJ Vigor.

Il testo è costruito attraverso un cut-up di citazioni riportate nel libro Pedagogia hip-hop. Gioco, esperienza, resistenza. Nasce come presentazione un pò originale del volume e si trasforma con il tempo in una vera e propria performance di spoken word, rap e live video mixing (qui se vuoi saperne più). Un mix evocativo per cominciare a riflettere sulle moltiplici potenzialità generative dell’hip-hop a livello personale e sociale.

THE BRONX 70s

A metà degli anni settanta
il reddito medio pro capite nel bronx era di 2.430 dollari,
appena la metà della media di New York
e il 40% della media nazionale.
Il tasso ufficiale di disoccupazione giovanile toccò il 60%.
I funzionari dei servizi sociali sostenevano però
che la vera cifra era più vicina all’80%..
(Jeff Chang)

Era un’epoca di divertimento,
eravamo un gruppo di adolescenti vivaci
che stavano diventando adulti in un periodo piuttosto turbolento.
La violenza, le gang e la droga infestavano le nostre strade.
Ma come diceva mia nonna, non c’è male che accade
da cui non possa nascere qualcosa di buono.
Il Bronx era disprezzato datutti,
compreso il presidente Carter.
Era un quartiere bruciato e abbandonato.
Non avevamo altro che noi stessi e la nostra cultura.
Non avremmo potuto fare altro che condividerla.
Da tutto quel male nacque qualcosa di così positivo
da contaminare il mondo intero.
(Joe Conzo)

Siamo gli avanzi nella sporca cucina
i resti del banchetto di ieri
frattaglie di cui ancora t’ingozzi
siamo quei bambini lisi, narcisi
i fanciulli della crisi
bighellonando nell’attesa d’appassire senza nulla a cui ambire
affiliamo l’arte di giocare con ciò che ci resta
finchè esplodiamo con la beffa di una festa non richiesta
(Skrim)

I dj pionieri delle feste in strada attaccando improbabili giradischi
e impianti audio all’alimentazione dei semafori
hanno modificato l’applicazione del divieto di transito in centro,
creando spazi comunitari dove non ce n’erano.
In quel luogo si aggregava tutto il quartiere:
giovani, famiglie, anziani e persino membri di diverse gang.
Era un meraviglioso posto d’incontro per tutta la comunità.
(Trac2)

Nel Bronx ci si mise a giocare.
E come ogni gioco che si rispetti non c’era un piano,
non c’era una finalità sociale o pedagogica,
non c’era nessun educatore o animatore a “far giocare”.
Si cominciò a giocare solo per il gusto di giocare.
Si giocava liberi, senza nulla da perdere,
con la voglia di trasformare e di essere trasformati.
Si imponeva un gioco che era impulso di vita,
pronto ad esprimere tutta la sua potenza, la sua radicalità.
(Davide Fant)

Fuochi di bivacco tra le scorie radioattive
si canta gioia ancora qui sull’orlo della fine
s’intingono versi nel grembo di un tramonto
di un’epoca che implora di riavere il suo racconto
asseta l’attesa nel deserto del reale
resa a questo bieco sfumare sarà
sfiancata eternità,
sbiadita umanità
canto del cigno che risplende a 10.000 watt
(Skrim)

La nostra volontà di sopravvivere
giocosa e canaglia
eccentrica e libera
cruda e inferocita
potevamo muovere montagne
e nazioni
e fondoschiena
(Walidah Imarisha)

BREAKING

I due tipi di colore fecero qualche passo in piedi
per poi andare a terra con un velocissimo gioco di gambe.
In risposta il ragazzo portoricano, Vinny, iniziò a fare toprocking,
poi dei movimenti che potevano rimandare al mambo
per buttarsi in seguito a terra.
Nei dieci minuti di durata della battle
la sfida
Vinny ebbe la meglio su entrambi i ragazzi di colore,
che mostrarono rispetto per il vincitore e gli strinsero la mano.
A quel punto il ragazzo portoricano se ne andò come se niente fosse successo…
La cosa mi intrigò parecchio!
(Trac2)

L’atmosfera mentale in cui ha luogo la solennità
è quella dell’onore,
dello sfoggio,
della millanetria,
della sfida,
si vive nel mondo dell’orgoglio tribale e cavalleresco,
del sogno eroico,
mondo in cui valgono bei nomi e blasoni,
e schiere di antenati.
Non è il mondo delle preoccupazioni per l’esistenza,
dei calcoli d’interesse,
dell’acquisto di cose utili.
(Huzinga)

Combattendo la colonizzazione del tempo
e lo spossessamento della propria vita
cercando un nuovo potere del corpo sullo spazio,
uno spazio che non solamente è lo spazio comune
ma un altro mondo,
questo centro è il luogo della creazione
(Hugues Bazin)

Sono forze contrapposte poste in un solo equilibrio
che danno fuoco al suolo quando stride per l’attrito
al ritmo della vita che si muove
ed è pulsazione come il battito del cuore
scorre dentro ad ogni sentimento
come sangue nelle vene è un movimento circolare come il tempo
è naturale come respirare
la spinta inversa a quella di un oggetto quando cade
invade orecchie testa scendendo sul collo
si snodano dinamiche annidate nel midollo
arrivano alle ossa, muscoli, tendini
muovendoli in simbiosi con la musica
è lei che ne ha le redini e dirige la rigidità in giro per il flusso
scorrevole impulso
leader indiscusso la corrente che rende possibile
prendere il tuo corpo e renderlo tagliente
Non so dirti esattamente cos’è che si mette moto in me,
segue l’accento del break fino a fondere
le note con le articolazioni del corpo
si sciolgono
quando la puntina è nel solco
(Musteeno)

WRITING

In fondo il bambino che gioca,
il puer ludens
non è proprio l’infaticabile costruttore di uno spazio intermedio
in cui il mondo viene rifatto, dislocato, simulato e rinnovato?
interpretato e sovvertito in modo da renderlo sopportabile, abitabile, anche nell’esercizio ripetuto delle crudeltà necessarie
nella sofferenza delle sconfitte e nell’euforia della lotta?
(Francesca Antonacci)

Ho tirato fuori i loop e i goccioloni,
poi writers come Stave 2 e SuperMug presero gli stili Soft Loop e Arrow,
aggiunsero altri loop,
presero le gocce e le trasformarono in spruzzi.
Checker 170 loopava tutte le lettere,
ancora oggi non riesci a leggere certi suoi pezzi.
John 150 faceva le lettere soft e wild con certi cambiamenti.
Io ho squadrato le mie lettere softie e ho fatto le lettere soft block,
che usavo in diversi stili.
Iniziai a capire il modo di creare un concetto o una lettera partendo da un altro.
Come i loop.
Tondi.
Rompo il loop a T, o lo faccio più triangolare.
Posso limitarlo a un lato solo.
Hi-C lo riprende, facendolo da tutte due le parti,
lo loopa di nuovo.
Vedo che lo si può squadrare o incurvare.
Così sono uscite le lettere meccaniche,
che vengono dalle lettere soft wild
(Phase II)

Erano militarmente strutturati per essere illeggibili,
erano armati,
noi non volevamo che la società vedesse
che stavamo buttando tutte le lettere all’aria.
Graffiti era la parola che voi ci avete appioppato.
Panzerismo iconoclasta l’unica definizione per spiegare
quello che abbiamo fatto sui treni della subway.
E’ questa la parola che dovrebbe essere usata.
Poi siamo arrivati al futurismo,
ai carri armati,
alle lettere con le quali ci siamo armati.
Da ornamento ad armamento.
(Rammellzee)

Skrim Def Dee come ai tempi del liceo
reo
niente galateo
a piedi sera tardi passi accorti come lince
nella sconcia pancia di provincia,
prima tag
ode al nome mio,
5 lettere sul muro
esistevo io
esistevo io
frammentato inquieto come wild style
ancora qui si vive
senza alternative
(Skrim)

MCing

Nel buio,
colto dal timore,
un bambino cerca riparo canticchiando.
Cammina,
si ferma al ritmo della sua canzone.
Sperduto si mette al sicuro,
si orienta come può con la sua canzoncina.
Essa è come l’abbozzo,
nel caos,
di un centro stabile e calmo,
stabilizzante e calmante.
Può accadere che mentre canta il bambino si metta a saltare
acceleri o rallenti la sua andatura
ma la canzone stessa è già un salto:
salta dal caos ad un principio d’ordine in quel caos,
che ancora rischia di sgretolarsi in ogni istante.
C’è sempre una sonorità nel filo di Arianna.
O nel canto di Orfeo.
(Gilles Deleuze, Félix Guattari)

Chiedi a lei – sacra scrittura
E’ lei che mi protegge sempre
Ogni volta che appare il buio
Fa parte di me
Mi ascolta quando non c’è scampo
In silenzio
chiede solo rispetto in cambio
(Musteeno)

DJING

La musica è soundscape:
panorama sonoro multiplo che miscela le diaspore timbriche,
strumentali, musicali,
secondo moduli non più legati alla mitologia delle radici (roots),
bensì all’attraversamento degli itinerari (routes).
Il transito dalle roots alle routes sente la svolta dislocante del sincretismo tecnologico
Il syn-tech è dislocante e diasporico.
senza termine, interminabile, inafferrabile.
Le diaspore syn-tech gemmano transculture.
I performers di nuovi soundscapes sono sperimentatori
che anticipano le nuove sensibilità non solo all’interno dei territori musicali,
ma anche al di fuori,
nelle de-territorializzazioni metropolitane:
le interzone dell’ibrido, del sincretico.
(Massimo Canevacci)

Sapevo cos’era perché studiavo elettronica a scuola.
Sapevo che nell’apparecchio c’era un interruttore a tre posizioni.
Quando è al centro la musica non si sente,
quando è a sinistra si ascolta il piatto di sinistra,
e quando è a destra il piatto di destra.
Andai in un magazzino in centro per cercare quell’interruttore a tre posizioni,
della colla per attaccarlo al mixer,
un amplificatore supplementare e una cuffia.
Saldai tutti i collegamenti e mi misi a saltare per la gioia,
ce l’avevo fatta! Ce l’avevo fatta!
(Grandmaster Flash)

Questa è la storia di come ho trovato il mio dj interiore
di come ho capito il concetto di consapevolezza campionata
in contrasto con la polizia della cultura autentica
che mi ha sbattuto a terra picchiandomi,
ripetendo: sei dei nostri, sei sei nostri?
noi campioniamo, mescoliamo,
sfumiamo una nell’altra le esperienze
remixando la definizione di sè
(Robert Karimi)

Il cambiamento di forma richiede la fluidità dei passaggi,
la capacità di mantenere e di perdere,
il rischio generoso e la prudenza del limite.
La razionalità fredda del calcolo che ha guidato l’esperienza moderna dell’occidente mal si adatta a questa esigenza.
Ci sono richieste nuove qualità
che stiamo appena cominciando ad apprendere.
Per passare da una forma all’altra senza esplodere,
per tenere insieme frammenti dell’imprevedibile,
sono richieste capacità di intuizione e di immaginazione
da sempre rinchiuse nei territori segregati del sogno,
del gioco, dell’arte, della follia.
Non c’è metamorfosi senza perdita e senza visione,
si può cambiare forma solo se si è disposti
a perdersi,
a cambiare
ad immaginare
(Alberto Melucci)

Fra teatro e fumetto. Un’attività espressiva per adolescenti che non amano esporsi

Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi, non a loro agio in attività di tipo teatrale.

Le idee in pillole:
1 – Lavorare sull’attivazione del corpo, la relazione, l’espressione di sè con una proposta che possa coinvolgere adolescenti particolarmente introversi e non a loro agio in attività di tipo teatrale.
2 – Proporre ai ragazzi di utilizzare i loro smartphone, con applicazioni semplici e intuitive, per creare narrazioni attraverso le quali esplorare il proprio mondo interiore
3 – Creare occasioni di espressione di sè in cui si garantisce al ragazzo la possibilità di proteggersi dall’esposizione diretta allo sguardo dell’altro, proponendo un’alternativa all’imperativo “mostrati!” della società attuale.

Riferimenti metodologici e ambiti di ispirazione:
Metodologicamente i principali riferimenti si possono ritrovare

– Nello storytelling digitale in una prospettiva di apprendimento esperienziale
– Nello psicodramma moreniano e in particolare il lavoro con la maschera di Mario Buchbinder
L’ideazione della proposta è sicuramente influenzata da pratiche quali il cosplaying, il gioco di ruolo e il LARP (Live action role-playing)


Mettersi in gioco per piccoli step

In genere quando si propone un’attività di tipo teatrale i ragazzi meno a loro agio con la corporeità, più introversi o magari con sintomi di fobia sociale, la risposta è (intuitivamente) un rifiuto. In un’ottica di “pedagogia nerd” una possibilità in questi casi può essere accompagnare a lavorare sugli obiettivi formativi che ci si è proposti (attivazione del corpo nello spazio, espressione del mondo interiore attraverso la fisicità, creazione di relazioni..), ma per piccoli step, dando loro la possibilità di rimanere protetti e mantenersi in un ambiente conosciuto e a loro congeniale (il mondo fantastico).
Quello che segue è un esempio di questo tipo di attività.

Se qualche collega è incuriosito e vuole provare a proporre qualcosa di simile non si scoraggi dall’utilizzo delle maschere (materiale non facile da avere a disposizione). Un lavoro simile si può fare anche realizzandole in cartone (come si vedrà in fondo al post) oppure utilizzando altri espedienti.

La scoperta delle maschere

I tavoli dell’aula dell’Anno Unico erano coperti di tante maschere diverse. Alcune orrorifiche, altre misteriose, altre curiose, altre ancora simpatiche e rasserenanti.
Ogni ragazzo era invitato a prenderne una che gli risuonasse. La consegna era “prendi la maschera che ti chiama.. fatti scegliere da lei..”.
Una volta scelta la proposta era di indossarla ed eventualmente completare il travestimento utilizzando stoffe e mantelli, e aggiungendo altri gadget come bacchette magiche, campanellini, armi in legno.. A loro disposizione c’era uno specchio, o in alternativa per guardarsi potevano utilizzare i loro cellulari in modalità “selfie”.

A questo punto la richiesta era di provare a immaginare chi fosse quella maschera, quale storia avesse, quale missione nel mondo, annotando appunti su un foglio. Ho utilizzato come stimolo una scheda personaggio simile a quella di un gioco di ruolo, o di un videogioco, sottolineando che non era obbligatorio compilarla tutta.

Inventare le storie a gruppi e realizzare i frame fotografici

I ragazzi erano poi invitati a guardarsi intorno, osservare gli altri e unirsi in piccoli gruppi facendo incontrare le maschere che secondo loro avevano “qualcosa da dirsi”.
Compito di ogni gruppo era inventare una storia i cui protagonisti fossero i personaggi nati dall’attivazione precedente.

La storia quindi doveva essere divisa in alcuni frames fotografici: i ragazzi mascherati dovevano mettersi in posa per rappresentare le diverse fasi della narrazione e fotografarsi utilizzando i loro cellulari.

Un editing digitale semplicissimo e dall’effetto immediato

A questo punto, utilizzando due app, Prisma e PicSay, i ragazzi avevano il compito di trasformare le foto in vignette. Prisma è un’applicazione per smarphone che permette di “fumettizzare” qualsiasi immagine. L’utilizzatore può scegliere tra opzioni di filtri diversi, alcune dalla resa grafica davvero efficace. PicSay invece permettere di aggiungere anche fumetti per dare voce ai personaggi (al momento in cui scrivo Prisma dovrebbe essere disponibile per Android e iOS mentre PicSay solo per Android, ma se ne trovano altre simili per iOS).
I ragazzi hanno così editato e realizzato il proprio fumetto, spesso stupendosi della bellezza delle immagini prodotte dall’intersezione tra la tecnologia e la loro sensibilità
I ragazzi che lo desideravano potevano utilizzare un’altra app, VideoShow, per creare uno slideshow di presentazione della storia, con la possibilità di aggiungere musica ed effetti sonori.

Momento riflessivo di condivisione

L’attività si è chiusa proiettando i lavori prodotti. In questa fase il mio compito di conduttore è stato quello di provare ad approfondire i contenuti, chiedendo ai ragazzi di dare un nome ai sentimenti dei personaggi, ai loro pensieri, ai motivi dei loro gesti. In un’ottica di mantenere la “copertura” non chiedo di uscire dalla metafora, di raccontare se gli autori ritrovano qualcosa di quanto raccontato nei loro vissuti personali, a meno che ciò non emerga spontaneamente. L’idea è quella di invitarli ad esplorare il proprio mondo interiore rimanendo ancora protetti dalla metafora.

Creare spazi protetti di convivialità ed espressività

Un’attività di questo genere comprende alcuni elementi tipici del teatro quali la narrazione, la relazione “incarnata” tra personaggi, il corpo come veicolo narrativo, può però essere utilizzata con adolescenti che non parteciperebbero mai ad una classica attività teatrale. In particolare ho scelto in diversi casi di proporla ragazzi che provenivano da una situazione di hikikomori (o ne erano a rischio), o che in generale vivevano disagio nell’esporsi all’altro. I 3 diversi livelli di protezione – la maschera, la mediazione della foto, la fumettizzazione – permettono loro di sentirsi sicuri e quindi facilitano il mettersi in gioco.
I ragazzi si muovono, esplorano gli spazi (le foto potevano essere fatte ovunque nell’edificio, e anche nel cortile), cooperano ad un obiettivo comune, interagiscono (e non è raro sentirli ridere insieme).

I ragazzi si espongono, comunicano rimanendo in uno stato di anonimato, ciò che importa non è il nome e il volto di chi manda il messaggio ma il messaggio stesso. Il prodotto artistico è un’opera collettiva che permette a chi l’ha creata di esprimere elementi importanti di sè, pur non svelando la propria identità.

Approcciare in modo attivo le tecnologie

Le applicazioni che sono state utilizzate contengono pubblicità, acquisti “in app” e le loro funzioni sono creativamente piuttosto limitanti: l’utilizzatore, può scegliere solo tra poche opzioni operative. Sono quindi agli antipodi rispetto al software libero, direzione imprescindibile in una prospettiva di Pedagogia Hacker.
Un’attività di questo permette però, a ragazzi che spesso vivono lo smartphone come oggetto di dipendenza, subendone passivamente la presenza, di cominciare ad invertire la rotta, scoprire che la tecnologia può essere utilizzata in modo attivo, creativo, può permettere loro di generare opere originali a partire dalla propria sensibilità e necessità comunicative.
Inoltre l’inversione di direzione è riscontrabile anche sul fronte dell’esposizione di sè. Mentre nei social network è fondamentale promuovere il proprio volto, la propria immagine, qui al contrario la regola è tenersi nascosti. Chi manda il messaggio è un’identità collettiva, un incontro tra persone che hanno lavorato ad un obiettivo comunicativo e artistico comune che trescende le singole individualità.

Le storie

Tra le storie realizzate da i ragazzi dell’Anno Unico c’è quella che racconta di Iris, un adolescente (con poteri magici) che per punizione è stato intrappolato in una foglia che non appassiva mai. Per questo rimase per anni attaccato ad un ramo, era “diventato un silenzioso osservatore del piccolo mondo che lo circondava e trascorreva le sue giornate pensando ad un modo per liberarsi”, era “centenario ma fisicamente appariva come al giorno in cui era stato intrappolato” (cit. dal testo dell’allievo). Iris cercava di chiedere aiuto ma, per colpa dell’incantesimo, era diventato afono, non emetteva alcun suono
Un giorno però Iris incontrò Peggy, un ragazzo molto solo, che aveva il dono di un udito finissimo. Peggy fu l’unico a riuscire a sentire le grida di aiuto di Iris, lo trovò, salì sull’albero e lo liberò. Dal quel momento naque una bellissima amicizia.

E’ facile uscire di metafora e riconoscere nel vissuto di Iris quello di tanti adolescenti che abbiamo incontrato. Ritengo inoltre che abbia una grande carica poetica, esaltata dalla realizzazione per immagini che pubblico di seguito:

Nella seconda storia che vorrei presentare i contenuti sono invece meno rassicuranti, come accade spesso quando i ragazzi sono liberi di inventare senza l’intromissione dell’adulto. Ad una prima lettura potrà sembrare una storiella banale, ma anche qui possiamo trovare temi che caratterizzano il vissuto degli adolescenti: la fiducia, il tradimento di una persona cara, la rabbia.

La catarsi

Un lavoro di questo genere può attivare un processo di catarsi: il ragazzo, mettendo in scena l’assassinio di colui che lo ha tradito, “scarica” le tensioni negative, prendendo distanza dall’evento traumatico e provando una sensazione di liberazione; la vendetta viene agita nel mondo della rappresentazione scenica (senza conseguenze per la vittima!) ma permettendo al protagonista di esternare e dare forma alla propria sofferenza e rabbia.
L’opportunità, in una fase successiva, di riguardare e commentare il prodotto finito (assistendo alla proiezione della storia realizzata) favorisce ulteriormente la rielaborazione dei vissuti. Si tratta di un processo che ha affinità con l’effetto di “purificazione dalle passioni” che Aristotele attribuiva alla tragedia greca e, in tempi più recenti, che Moreno indica come elemento importante della terapia psicodrammatica.
Ragazzi che sono stati vittima di bullismo o di abbandono hanno potuto rientrare in contatto con il proprio vissuto negativo generando il bello, prendendosi cura di sè e avviando piccole (o grandi) trasformazioni.

La sfida di proporre la stessa attività ad un gruppo di ragazzi più “street”…

Ho provato a proporre questo tipo di lavoro anche alla Crew, il gruppo dell’Anno Unico più “street”, insofferenti ai setting maggiormente strutturati, spesso provenienti da contesti familiari e sociali difficili.
I ragazzi si sono divertiti molto, hanno giocato con le maschere, ne hanno provate diverse a testa ma si è creato un clima di confusione tale che i gruppi (un quartetto e due coppie) non sono riusciti a creare alcuna storia. Sono nate alcune belle immagini, che posto qui sotto, tutte molto violente ed evocative, ma anche quando le abbiamo riviste insieme non siamo riusciti a parlarne, i ragazzi erano distratti, le voci si accavallavano, quando qualcuno provava ad intervenire con argomenti pertinenti gli altri lo interrompevano con battute. In quel momento mi sono fatto molte domande: avrei dovuto dare un consegna differente? Non avrei dovuto proporre questo lavoro ad un gruppo di ragazzi con queste caratteristiche?

Lo spettro

Ad un certo punto però qualcosa succede… proiettata sul muro compare l’immagine qui sotto. Non mi ricordavo nemmeno di averla scattata io quella foto. Era un ritratto di gruppo che alcuni ragazzi mi avevano chiesto per ricordare quel momento:

Luca per primo notò la persona sulla destra, separata dagli altri. Aveva una maschera a specchio, un volto spettrale senza occhi, naso, bocca, solo il riflesso del mondo circostante
Luca si chiese ad alta voce chi fosse quello spettro, come fosse finito lì.
Da quella domanda semplice il clima (magicamente..) cambiò:
Hedi, acuto tirocinante, allargò al gruppo la domanda del compagno, invitando ognuno a proporre la propria teoria. I ragazzi si ascoltavano reciprocamente e rispettavano i turni di parola: “E’ uno spettro solitario”. “E’ triste, non ha amici, è venuto a ricordare che la felicità un giorno finirà”, “E’ una persona che è stata esclusa dal gruppo”… In poco tempo in quell’aula si sono materializzate e condivise alcune tra le paure più forti di questi ragazzi, paure “spettrali” in quanto indicibili, su cui si è potuto aprire un breve ma interessante e intenso spiraglio di riflessione.
Ritengo che questo quarto d’ora abbia dato senso all’intera attività, un piccolo fiore nel caos che in seguito, in sede di colloqui individuali, avrò modo di riprendere in modo più approfondito e generativo con alcuni dei ragazzi presenti.

Autoprodurre le maschere. Il lavoro con un gruppo di ragazzi disabili

Quelle che seguono sono alcune immagini in cui le maschere sono state costruite con il cartone, a testimonianza che non è vincolante possedere un propria collezione. Il lavoro è stato fatto da una collega con un gruppo di ragazzi disabili, all’interno di una lezione di inglese.

Sperimentazione al corso di formazione formatori “Alieni”

Durante il percorso Alieni, strumenti e metodi per il lavoro con i nuovi adolescenti nel seminario dedicato alla cultura nerd e ai ragazzi più isolati, spesso è capitato di proporre questo tipo di attività ai partecipanti (educatori, psicologi, formatori), che si sono sempre prodigati creando immagini e storie molto interessanti.. Ecco qualche loro immagine per concludere.
Questo seminario si svolge all’UESM Casa dei Giochi di Milano, patria nerd di ogni età. Le ultime due foto sono scattate nel suggestivo dungeon per LARP ad imbientazione dracula che si trova sotto l’edificio..

Anno Unico e hikikomori, una video-intervista

Dal canale di Hikikomori Italia una video-intervista per raccontare il lavoro all’Anno Unico con ragazzi che hanno alle spalle un vissuto di fobia sociale/scolare

Marco Crepaldi, fondatore di Hikikomori Italia mi ha invitato nel suo canale Youtube per raccontare dell’esperienza dell’Anno Unico, e in particolare del nostro lavoro con ragazzi che hanno vissuto situazione di hikikomori, e più in generale ragazzi con problematiche legate alla fobia sociale e scolare.

Questa società ci obbliga a mostrarci sempre felici?

I ragazzi riflettono sulla società in cui l’imperativo è “devi divertirti!”

Stavamo lavorando in aula all’Anno Unico. Si parlava libertà, aspettative, imposizioni sociali.
Propongo ai ragazzi un video che avevo da poco scoperto, intitolato “this is a generic millenium ad” (che da allora riproporrò spesso in aula, anche nelle formazioni con insegnanti e formatori).
Lo scopo di chi l’ha prodotto è quello di raffigurare – attraverso un lavoro di cut-up di altri video – l’immagine stereotipata che le pubblicità mostrano dei giovani. Un’opera che dipinge in modo didascalico la pressione a cui le nuove generazione sono di continuo esposte: bisogna essere sempre allegri, avere mille amici, partecipare agli eventi giusti, mostrarsi originali e di successo tra i pari. Il video è molto evocativo, se utilizzato in maniera esperienziale, attenti alle risonanze che suscita, può aprire spiragli di consapevolezza interessanti.

“Tu sei unico. Tu sei differente. Tu sei speciale. Noi lo sappiamo. Noi capiamo tutto di te. In particolare il linguaggio che usi quando sei online. Come T.O.T.S. B.R.B. e “Join the conversation”. l’hai detto, vero? Il fatto è che sei libero. Libero dalle parole con le vocali!. Libero dai limiti del colore naturale dei capelli.. I tuoi capelli sono completamente rosa. Tu balli tutto il tempo. In strada. Nella tua camera. E sicuramente con il tuo eclettico gruppo di amici. Wow Ephram suona l’ukulele! Chi se lo aspettava? Questo è il modo in cui i millennials si comportano… “

Al termine della proiezione chiedo ai ragazzi se c’è qualcosa nel video che li ha colpiti, cosa hanno pensato o sentito dentro di loro mentre lo guardavano. Dopo un primo momento di silenzio gli interventi che si susseguono sono molti. Il vissuto di fondo è un mix tra lo sturpore di fronte alla rivelazione di qualcosa di assolutamente nuovo e l’esclamazione “è ovvio che è così“! Il fatto che si possa tematizzare qualcosa che ogni adolescente sa ma che difficilmente viene detto pubblicamente li colpisce.
Dicono “è vero, è così..”, “Devi sempre divertirti.. uscire.. magari non hai voglia però non puoi.. sei uno sfigato se non esci..”, “devi farti vedere..”, “devi far vedere che hai tanti amici..”, “magari tu vuoi stare da solo ma non puoi..”

Il disegno di felipe

Mentre proseguiva la condivisione Felipe, che di solito si coinvolgeva molto in questo tipo di riflessioni, non parlava, era molto impegnato a disegnare.
Ad un certo punto mi porge il disegno. Mi dice “Ecco, questo è quello che succede!”.
Il disegno rappresenta un ragazzo con in testa un casco. Questo casco è uno “smile”, l’emoji che rappresenta un volto sorridente. Nel foro della bocca spalancata si intravede il suo volto reale, che invece è triste, affranto. Sulla sua maglietta c’è un segnale di divieto con all’interno un viso triste: “vietato non sorridere”. Alle sue spalle una città in macerie.

Il disegno di Felipe

Chiedo a Felipe se ha voglia di mostrare e raccontare a tutti il disegno. “Questo rappresenta come mi sento” dice ai compagni “questa società ti obbliga a farti vedere in un certo modo, soffoca delle parti di te”.
Gli chiedo cosa rappresentano le macerie dietro al personaggio “sono i problemi di tutti i giorni, che sono tanti, ognuno ha i suoi, le tensioni con i genitori, la scuola, trovare lavoro.., e poi sono il nostro passato, le storie, le sconfitte..”.
Dice che non sono cose di cui parli tanto, te le tieni dentro, i genitori o li ingigantiscono o li sminuiscono, allora alla fine non ti rivolgi più a loro, con gli amici in compagnia non se ne parla, ci si diverte, bisogna essere sempre presi bene. Magari c’è qualche amico con cui ne parli ma solo con pochi.

Christopher si inserisce: “…devi fare un pò il coglione. quando sei fuori, devi far ridere gli altri.. fumare.. non è che puoi parlare dei tuoi problemi.. “

La chat come luogo sicuro dove essere se stessi

Chiedo a Christopher se ci sono dei momenti in cui invece riesce davvero a parlare dei suoi problemi.
Lui risponde: “in chat!
Io sono sinceramente sorpreso “in chat?!” .. “si in chat, nella chat dei videogiochi on line” (Christopher è un gamer “duro”) “Io ho cosciuto in chat delle persone con le quali parlo dei miei problemi, gli racconto le mie storie e loro le loro..”

E perchè questo non succede con gli amici che vedi tutti i giorni?
Perchè in chat non li vedi. Non ti vedi in faccia. E non ti giudicano. Puoi parlare tranquillo.

Porto a casa questa scoperta. La chat, il luogo che per tanti adulti è un luogo negativo, dove con le persone si intessono solo rapporti superficiali, se non pericolosi, è invece per molti ragazzi uno spazio “safe”, al riparo del richiamo alla prestazione, all’essere sempre brillanti e goliardici, come invece richiede il rituale pubblico delle compagnie di adolescenti.

Un rito di chiusura: mostriamo le macerie

La lezione volge al termine e decido di proporre un piccolo rito di chiusura di questa attività, convinto che questi temi avremo dovuto sicuramente riprenderli.

Dico che la nostra missione è contrastare questa spinta della società a volerci sempre brillanti e performanti, far si che anche la parte oscura, le macerie, abbiano la possibilità di mostrarsi.

Utilizzando la lavagna come sfondo di proiezione e il proiettore ancora acceso, fermo a mostrare uno degli ultimi fotogrammi del video, chiedo se qualcono di loro voleva alzarsi e disegnare con il pennarello delle macerie, come sfondo agli attori felici ritratti nel video, come primo atto “psicomagico” per sancire i nostri intenti. Nel minuto seguente compaiono come “quinte” della rappresentazione in video case diroccate che richiamano il disegno di Felipe.

Guardiamo insieme il risultato, skippando anche tra i fotogrammi, Sorridiamo per le immagini che si creano. Ora le macerie sono presenti, le vediamo e forse insieme possiamo cominciare ad affrontarle insieme.

Ringrazio i ragazzi, dico che le loro riflessioni sono state molto interessanti per me, che spero che l’Anno Unico sia anche questo, un posto che possa anche accogliere la parte non luminosa di noi, in cui non ci sia l’obbligo per nessuno di mostrare felicità forzata.
Li saluto, si alzano, “bella!..”, a domani..

Una notte in biblioteca.

Re-inventare uno spazio pubblico e sperimentare l’intensità della poesia, attraverso un’ “occupazione” notturna, scene teatrali e l’intimità del buio

Le idee in pillole:
1 – “Occupare” un luogo pubblico per incantarlo, creare un temporaneo spazio di magia in cui :
– le relazioni nel gruppo sono più intense
– le relazioni con lo spazio si ristrutturano
– Un tema di apprendimento come la poesia può essere affrontato nel setting che più gli si addice, quello notturno
2 – Lavorare sulla poesia in una prospettiva immaginale
3 – Proporre cicli di codifica-decodifica trasformando la poesia in scena teatrale attraverso l’utilizzo di oggetti mediatori quali teli e maschere

Da un punto di vista metodologico:
mixare approccio rave/TAZ, pedagogia immaginale, psicodramma con le maschere (in particolare nella declinazione sviluppata da Mario Buchbinder), apprendimento esperienziale

notte in biblioteca (video di Filippo Corbetta)

DIARIO DELL’ESPERIENZA:

L’intento era presentare ai ragazzi la poesia in tutta la sua forza, scrollarle di dosso quella patina di cui spesso è ricoperta a scuola, che la disarma, la rende sterile. E poi, come richiedeva il progetto in cui l’attività era inserita, bisognava aiutarli a riavvincinarsi, in modo inedito, ai locali della biblioteca.

Ci voleva un’azione forte, destabilizzante.

Perchè in biblioteca non facciamo un’irruzione a notte fonda? Entramoci avvolti dall’oscurità, intrufoliamoci a leggere, scrivere, dare vita ai versi!”

Mi ricordo le facce stranite dei colleghi quando ho proposto l’idea al tavolo di coordinamento del progetto Biblio.net, facce che presto si sono fatte complici. Ilaria DeLorenzo, compagna di mille scorribande educative, ci è stata subito, per lei era un invito a nozze.

E così, dopo un pomeriggio passato con i ragazzi a parlare di poetry slam e comporre testi di spoken word, una cena e una serata insieme, allo scoccare della mezzanotte ci siamo avventurati tra gli scaffali pieni di libri. Era completamente buio, tranne la luce dei lumini che io e Ilaria avevamo posizionato ovunque (tanto che più di una volta la direttrice ci ha chiamato per assicurarsi che non scattasse l’allarme anti-incendio..). A terra avevamo sparso testi di poesie e canzoni. Nei locali risuonava una musica un pò magica che non si capiva bene da dove arrivasse (tutta la prima parte della conduzione l’ho passata ad una consolle allestita su un soppalco della biblioteca, divertendomi a mixare colonne sonore, tappeti di musica ambient, classica contemporanea ed elettronica cercando di costruire – anche a livello sonoro – l’atmosfera giusta per il lavoro).

I ragazzi sono hanno iniziato la propria esplorazione con una pergamena in mano che riportava la consegna:

“Esplora, Cerca, Leggi – Esplora ancora, Cerca, Leggi

Prenditi il tuo tempo.

Quando avrai trovato una poesia – o la parte di una poesia – che ti risuona, che per ragioni anche imperscrutabili ti chiama, lasciati scegliere da lei.

Cerca allora un luogo propizio per accostarti a lei nella sua dimensione immaginale, affinché tu riesca a captarne il potere simbolico.

Scegli un luogo comodo e accogliente.

Ora leggi e rileggi più e più volte la poesia.

Non giudicarla, non chiederti se è bella, brutta, scritta bene o male,

Se per caso ne conosci l’autore rimuovi tutto ciò che sai.

Affinchè l’esperimento riesca prova ad annullare te stesso e il tuo vissuto, non cercare parti di te e della tua esperienza tra i versi.

Rimani sulle parole, sulle immagini che la poesia ti suggerisce, ti propone, con cui il testo ti pervade.

Focalizzati sulle immagini che la poesia fa scaturire

COSA VEDI?

Annota ogni visione sul tuo blocco”

L’intento era lavorare sul potere immaginale e simbolico della poesia. Per questo eravamo andati, giorni prima, a consultarci con Paolo Mottana, che ci aveva dato qualche prezioso consiglio (se sei incuriosito dalla pedagogia immaginale clicca qui).

E’ iniziata un’esperienza di esplorazione solitaria, di contemplazione e meditazione, di ricerca di visioni. E’ stato un lavoro dello stare, dell’attesa, del silenzio fuori ma soprattutto dentro.

In un secondo momento i ragazzi si sono ri-incontrati, appartati in piccoli gruppi hanno condiviso le visioni.

A questo punto sono comparsi intorno a loro teli e maschere. Utilizzando questi oggetti mediatori ogni gruppo era invitato a dare corpo alle immagini emerse con un breve scena teatrale, in un processo trasformativo di appropriazione e re-invenzione.

clicca qui per sapere qualcosa di più sull’utilizzo delle maschere in contesti formativi

E’ difficile raccontare a parole la bellezza di quello a cui abbiamo assistito poco dopo. Vi lascio alle immagini del video che postato all’inizio dell’articolo che rimangono una, seppur limitativa testimonianza.

Sicuramente è stato un momento che ricorderanno a lungo, una TAZ generativa, un “atto insensato di bellezza” .